Il calcio non è che la continuazione della guerra e della politica con altri mezzi. Marco Impiglia racconta…
In questa puntata vi parlerò delle qualifiche continentali ai Mondiali. Non mancano le “oddities” e le “amazing feats”, come dicono gli anglofoni. E si comprende bene come i cliché “calcio e guerra”, “calcio e politica” non siano buttati lì per caso. Andiamo a Germania 1974, l’edizione dei giocatori capelloni e provvisti di lunghe barbe, baffi e impressionanti basettoni. C’era questo spareggio di ammissione tra l’URSS e il Cile, acqua e fuoco a mischiarsi: Breznev contro Pinochet.
A seguito del golpe militare del 1973, l’Estadio Nacional de Chile a Santiago era stato trasformato in un campo di concentramento. Eppure, l’ineffabile sir Stanley Rous, il capo della FIFA, insistette perché la sfida si facesse lo stesso. L’URSS pareggiò a Mosca il match d’andata e si rifiutò d’andare a Santiago. Allora i dirigenti cileni decisero di giocare la gara senza l’avversario: dopo il gol dei locali, l’arbitro avrebbe fischiato la fine e il Cile avrebbe raggiunto i Mondiali. Così fu. In uno stadio strapieno, il capitano Francisco Valdes segnò un gol a porta vuota e poi corse negli spogliatoi, dove per la tensione vomitò nella doccia. Valdes era un oppositore al regime di Pinochet, ma non se l’era sentita di non partecipare a quella partita farsa; sarebbe finito in prigione con la chiave buttata. Anni dopo, scrisse una lettera di scuse che depositò sulla tomba di Pablo Neruda.
Quanto a sfide di sapore forte, niente batte quel che accadde tra l’8 e il 26 giugno 1969, quando El Salvador e Honduras disputarono tre partite di fuoco. Gli honduregni s’aggiudicarono 1-0 a Tegucigalpa l’andata, ma i giocatori ospiti furono disturbati dai tifosi locali. In Salvador una diciottenne, Amelia Bolaños, per la delusione si sparò un colpo di pistola al cuore. Alla giovane furono tributati funerali di Stato con la nazionale al completo che sfilò dietro la bara. L’opinione pubblica salvadoregna giurò vendetta per il ritorno a San Salvador. E qui, fu necessario fare intervenire i carri armati per scortare i calciatori allo stadio.
L’inno honduregno venne accolto da fischi e la bandiera tolta dal pennone e stracciata. Due tifosi dell’Honduras rimasero uccisi. Vinsero 3-0 i padroni di casa e l’hooliganismo delle tifoserie si trasportò all’Azteca di Città del Messico, per lo spareggio. Vinse El Salvador, che riuscì poi a qualificarsi superando Haiti. Ma la questione con l’Honduras non finì lì: il 14 luglio El Salvador lanciò un attacco. Ne scaturì un conflitto bellico che evaporò in quattro giorni. Il trattato di pace fu firmato nel 1980. Nel frattempo, il giornalista polacco Ryszard Kapuściński aveva trovato il nome giusto della storia: “The Soccer War”.
Algerini ed egiziani per andare in Sud Africa non si comportarono molto meglio. Nel giugno del 2009 si svolse a Blida la partita tra le due nazionali, ultimo round di qualificazione. I biancoverdi di casa s’imposero per 3-1. Nel ritorno al Cairo, gli algerini furono accusati d’avere rotto i vetri del loro pullman dall’interno per dare a vedere d’essere stati assaliti dai supporter locali. Lemmouchia e Alliche entrarono in campo con le teste fasciate. L’Egitto vinse 2-0, ma si verificarono scontri.
Un noto rapper algerino s’inventò che suo fratello era rimasto ucciso. Diversi luoghi d’interesse egiziano in terra d’Algeria furono oggetto di vandalismo. La bella venne giocata a Omdurman, in Sudan. Vinsero gli algerini 1-0, ma con altri brutti incidenti. Seguirono dispetti a livello politico, nei quali si distinse per il suo populismo il presidente egiziano Mubarak. Infine, un villaggio egiziano decise di mutare il suo nome da al-Jaza’ir (“Algeria”) a Mubarak al-masriyin (“Mubarak per gli Egiziani”).
Tipiche sono state le “fughe in massa”. Ne estrapolo solo una. Nell’aprile del 1997 i componenti della nazionale albanese, impegnati a Granada con Ucraina e Germania nelle eliminatorie per approdare in Francia, decisero in blocco di chiedere “asilo sportivo”. Gli atleti erano giunti in Spagna senza soldi e persino senza scarpe e magliette. Una ditta tedesca, la Puma, offerse le divise per il match con la Germania. Le spese dell’albergo furono coperte con la cessione dei diritti televisivi.
E poi ci sono i motivi del consumismo occidentale indigesti ai medio-orientali, uno dei quali è del 1994 e lo possiamo appaiare alla vicenda della birra Budweiser in Qatar. Infatti, la ditta McDonald lanciò un set completo di contenitori per hamburger, ognuno dedicato a una nazione partecipante. Quella dell’Arabia Saudita provocò polemiche.
La bandiera verde recava la tradizionale scritta in arabo: «Non c’è altro Dio all’infuori di Allah e Maometto è il suo profeta». I regnanti sauditi accusarono la distributrice di blasfemia, minacciando una causa legale se non avesse subito ritirato il prodotto incriminato: il Corano appaiato a un hamburger, e magari anche di suino: “Ashia’ alkafari!” Ma ne erano ormai stati immagazzinati due milioni di esemplari, e nulla fu possibile fare. I sauditi ricevettero, però, delle scuse ufficiali. La Coca-Cola Company, che pure stava producendo lattine con il sacro vessillo, cambiò la bandierina al volo.
Anche noi italiani ci siamo distinti. Nel 1962, del fatto che in Cile si doveva incontrare subito proprio il Cile, i nostri esperti di tecnica calcistica si rallegrarono. Ma intervenne un fattore X a complicare la scena: nelle settimane precedenti il torneo, due inviati spedirono corrispondenze talmente negative, sulla vita economica e sociale di quel paese lontanissimo, da scatenare le furenti reazioni della stampa cilena; tanto che si sfiorò l’incidente diplomatico.
Autori degli articoli incriminati erano Luigi Pizzinelli e Antonio Ghirelli. Particolarmente offensivo venne giudicato il report di Pizzinelli, apparso su “Il Resto del Carlino”. Esso terminava con quattro lapidarie parole: «Questi sono dei regrediti». Fatto sta che i cileni nella sfida diretta a Santiago, aiutati da un arbitro inglese, ci riempirono di calci, sputi e pugni, sbattendoci fuori in malo modo dal “loro” Mondiale.
Scivolando un po’ più indietro nel tempo, fermiamoci in Brasile nel 1950. Sapete che argentini, francesi e tedeschi non vi parteciparono? I germanici perché, come il Giappone, erano stati temporaneamente banditi dalla FIFA. I francesi rinunciarono alla lunga trasferta all’ultimo momento. La Federazione argentina il 26 gennaio 1950 annunciò che non avrebbe preso parte alla fase finale, e lo disse in lingua francese, bene accetta a monsieur Jules Rimet: «En raison des différences qui existent entre elle et l’Association brésilienne».
In realtà, gli argentini c’erano rimasti male perché il torneo era stato affidato ai cugini del nord. E cordiali non erano i rapporti con la Confederazione brasiliana degli sport, organizzatrice del torneo, che aveva proibito a un loro club, il Bangù, di disputare partite con gli argentini. Un altro motivo fu che i loro migliori giocatori professionisti, quasi tutti finiti in Europa, s’erano rifiutati di prestare servizio gratis nell’Albiceleste. Non si presentavano ancora gli sponsor a riempirli di grano.
Più indietro ancora, Francia 1938, una delle nostre quattro vittorie. Il 12 marzo di quell’anno fatidico, Adolf Hitler unificò l’Austria e la Germania, e a ruota giunse alla FIFA la notizia che la Federazione austriaca non esisteva più. Venne allestita in tutta fretta una partita di “riunificazione” tra austriaci e tedeschi, il cui risultato doveva essere un pareggio; senonché, nel finale gli austriaci segnarono due volte.
Il Reichssportführer Hans von Tschammer und Oste fece sapere al selezionatore Sepp Herberger i desideri del führer, che voleva vedere ai Mondiali una formazione imbattibile composta da cinque austriaci e sei tedeschi, o magari anche l’inverso: bastava che vincessero la coppa.
Ma Herberger fallì nel tentativo d’amalgamare i differenti stili di gioco, la Germania venne subito eliminata dalla Svizzera. Vari fussballer austriaci dovettero preoccuparsi dell’inasprimento delle persecuzioni degli ebrei nella Germania nazista. Un elemento nel giro della nazionale, il viennese Camillo Jerusalem, invece di ritrovarsi a giocare i Mondiali riparò in Francia per sfuggire alle cacce ai “giudei”. Nonostante questa sua prudenza, fu internato in un campo di lavoro quando Hitler prese Parigi.
Per quel che concerne i “forfait”, l’edizione 1934, affidata all’Italia, non fu da meno. Mancarono i campioni in carica dell’Uruguay e i “campioni virtuali” dell’Inghilterra. Quando la FIGC chiese alla Football Association di entrare nelle qualifiche con almeno una delle sue quattro rappresentative, questa rispose con un garbato no. Uno dei membri della FA, Charles Sutcliff, motivò la decisione con un giro di frasi che, in sostanza, significava: “I nostri campionati nazionali da soli valgono di più del vostro cosiddetto campionato del mondo”.
Gli uruguaiani, dal canto loro, si giustificarono parlando di vendetta per il rifiuto di quasi tutte le europee a iscriversi al primo Mondiale. Infine, ci fu da risolvere il problema del regolamento FIFA che non promuoveva in automatico la squadra del paese ospitante. Benito Mussolini considerò attentamente la cosa: giocare i Mondiali di calcio in Italia senza gli Azzurri? Impossibile!
Allora Vaccaro, Mauro, Barassi e gli altri dirigenti della Federcalcio aggiustarono l’impiccio in maniera da non correre rischi: come avversaria pescarono la debole Grecia. Gli Azzurri vinsero 4-0 il match d’andata, a Milano il 25 marzo 1934. Quindi s’evitò di giocare il ritorno ad Atene coll’artificio di donare una nuova sede alla Federazione greca, ed anche denari e regalie per 700.000 dracme, corrispondenti a trecentomila euro di oggi. All’epoca, questo scandalo non venne reso pubblico, ci hanno pensato gli storiografi in tempi recenti.
Sull’edizione del 1934 avrei da dire molte cosette, perché l’ho esaminata a fondo scrivendoci sopra un saggio pubblicato in un volume in lingua inglese. Ad esempio, due “dettagli” scoperti tra le carte conservate negli archivi di Stato. Il Mondiale in Europa attirò l’interesse di molte testate giornalistiche. Circa due centinaia di reporter furono accreditati, e significativa risultò l’assenza di inviati speciali dalla Gran Bretagna.
Siccome il regime paventava l’ingresso di reporter di fogli antifascisti che avrebbero potuto scrivere male della dittatura, fu fatta circolare una direttiva che caldeggiava di preferire sempre giornali filofascisti a giornali socialisti, in caso di ballottaggio tra più testate. Si stilarono accurate liste nazione per nazione. Diversi giornalisti “sospetti” furono censurati, impedendo loro di varcare i confini.
La seconda curiosità ha un risvolto filatelico. Alcuni mesi prima dell’evento, che rullò dal 27 maggio al 10 giugno, un documento passò nelle mani del capo del governo: gli si chiedeva d’autorizzare l’emissione di francobolli per celebrare il mondiale di calcio. Mussolini, che amava l’equitazione a tutti i livelli e poco amava il calcio, accanto alla sua sigla pose un secco “No”.
Allora il presidente della FIGC, il miliziano Giorgio Vaccaro, tornò alla carica con un’altra lettera, più elaborata, nella quale si scusava per la poca chiarezza e motivava la necessità di stampare francobolli con l’assunto che, se non l’avesse fatto l’Italia, ci avrebbe pensato la Svizzera, paese sede della FIFA. Mussolini opinò che, se si trattava di una questione di fifa, non poteva esimersi. Siglò un “Sì” sul documento.
Ma chi ha detto che il “duce” non aveva il senso dell’umorismo?