Una riflessione originale, del nostro Marco Impiglia, sull’ultimo “caso psichiatrico”: le bizze di Nicolò, poi l’incubo Coppa Italia.
Ci risiamo, la AS Roma è ricaduta nella trappola del comportamento auto-frustrante. Nicolò Zaniolo ha abbandonato le file, non è andato incontro ai desideri della Società, che lo voleva in Inghilterra inserito in una squadra in difficoltà. Zaniolo ha disertato gli allenamenti, i tifosi lo hanno inseguito sotto casa, accusandolo di alto tradimento, e infine c’è stata la lettera di pentimento del guerriero, una mano tesa a fare la pace. A conclusione della vicenda (per ora…), i lupi giallorossi, nonostante il calore espresso dalla Curva Sud, sono stati eliminati dalla Coppa Italia dai grigiorossi della Cremonese, ossia il fanalino di coda della Serie A. Ma perché è accaduto tutto questo? Perché noi romanisti abbiamo la forte sensazione di un “dejà vu”? Azzardo qui una risposta. Si tratta di puro masochismo.
Io ne so qualcosa, giacché ho tendenze masochiste coltivate fin dall’infanzia. Nella sostanza, la AS Roma, “nata per vincere” per una necessità politica, sorta da un accordo di forze in una città ricca di rovine che Mussolini voleva recuperare a centro di un impero, si ritrovò inopinatamente a perdere, superata nei mezzi dalla Juventus, dall’Inter e dal Bologna. Questa circostanza, invero inattesa, divenne il nucleo fondante del sentimento vittimista del quale ben presto la ASR cadde preda. Nel 1942, grazie alle circostanze speciali della guerra in corso, finalmente i giallorossi sfatarono il tabù. Il “generale” autore dell’impresa venne individuato nel “fornaretto” Amedeo Amadei, inverando il mito del condottiero nato umile nel Latium. Ma intanto era passata una generazione, quella di Campo Testaccio, la culla giallorossa. Il primo sacrario che aveva visto ardere il sacro fuoco. La tana dove i lupi, quasi tutti “romani de’ Roma”, si raccoglievano e davano battaglia fino all’esaurimento estremo delle energie vitali. Il generale e capitano, Attilio Ferraris, nello spogliatoio dello stadio di legno, pitturato di ocra e vermiglio a via Zabaglia, li faceva giurare e li minacciava, anche: “Chi desiste dalla lotta…”.
Nel dopoguerra, il processo auto-frustrante si riattivò pari pari. Niente scudetto, nessun primato nazionale per molte stagioni di patimenti, mentre il Toro e la Juve, il Milan e l’Inter, e perfino la Fiorentina, si appuntavano sulle maglie il triangolino tricolore di campioni della nuova Italia repubblicana. La Società, dopo la caduta in Serie B, era andata in mano a democristiani e poi a presidenti di sicura fede ma di scarse finanze (Renato Sacerdoti), o addirittura “ricchi scemi” (il conte Marini Dettina). Tuttavia, con la sperimentata cadenza generazionale, nel 1961 arrivò all’Olimpico, lo stadio delle Olimpiadi e pertanto un luogo predestinato, la seconda vittoria epocale: la Coppa delle Fiere. Capitano e generale dell’impresa il piccolo ma tosto Giacomino Losi, di sangue barbarico ma, per il suo impegno generoso, “core de Roma”.
Passa un’altra generazione, 22 anni, e, nel 1983, il secondo scudetto appare sotto forma miracolistica; ovvero esattamente come il primo, grazie a un presidente-manager di traccia nordista e però di antica fede, Dino Viola, e al “divino” Roberto Paulo Falcao, condottiero venuto da lontano, in grado di sconfiggere il nemico tradizionalmente più spietato e iniquo: la Juve Taurinensis: i Celto-galli insomma. In questo computo, non conto le Coppe Italia o altri tornei minori che, evidentemente, il tifoso romanista considera inappropriati all’innata grandezza per riceverne un appagamento sufficiente a spegnere il bisogno masochista, che è poi la ricerca del piacere attraverso la sofferenza psico-fisica.
Studiando Carl Gustav Jung, lo psichiatra svizzero figlio di un pastore evangelista, ci si accorge infatti che la rabbia dei romanisti è generata da una mancata illuminazione dell’inconscio. La Lupa è rimasta ingabbiata dalla negazione di quello che credeva fosse il suo Destino di diritto, il primato nazionale, e dal conseguente piacere che ha provato nel rifugiarsi in un meccanismo di auto-frustrazione per difendere perversamente il proprio Orgoglio. Perché questa è la parola chiave: l’Orgoglio di Roma. (A questo punto, i laziali – la mia parte biancoceleste – potrebbero aggiungere che i romanisti sono a tutti gli effetti dei tipi “orgoglioni”). La ciclica ricaduta nel peccato di orgoglio dei bucolici lupi giallorossi va analizzata come un moto di rivalsa. L’unica possibile vendetta al cospetto del sadismo invadente e dell’autoritarismo senza soluzione di continuità manifestato dell’Altro; inteso come antagonista il settentrione industriale del calcio e, nello specifico, il duo Torino-Milano. Come scrive Jung, l’autolesionismo (la storia della AS Roma è piena di episodi di incredibile autolesionismo) è l’atto aggressivo più facilmente negabile, in quanto inconsciamente agito. Siamo nel buio pesto del peccato di orgoglio, giacché “non ci si illumina immaginando figure luminose, ma rendendo conscia l’oscurità”.
La vicenda di Zaniolo, la sconfitta con la Cremonese, sono questa oscurità della quale la Roma ha assoluto bisogno per ricaricarsi, di tanto in tanto. Purtroppo, il ciclo di ricarica è lungo. Riprendendo il discorso diacronico, notate come dalla ricarica della Coppa delle Fiere a quella dello scudetto del 1983 siano passati 22 anni. Nel 2001 altri 18. Il capitano Francesco Totti, generale fatto in casa, il presidente-imperatore Francesco Sensi, erede della leggenda di Testaccio, e la gioia di strappare il territorio al “gemello diverso” resero la macchina del trionfo davvero speciale. Ricorderete la “lupa” Ferilli, splendida, bruna, i denti bianchissimi, nuda e altera. Le celebrazioni al Circo Massimo, con l’aedo Venditti. Testaccio e molti quartieri storici in festa, attraversati da una sensazione di stordimento da Baccanali, uniti tutti dall’estasi della “Vendetta”.
Secondo la tesi di un altro psichiatra di lingua tedesca (i germanici odierni sono quanto di più vicino c’è ai senatori della Roma repubblicana e imperiale come modo di pensare), il viennese Robert Eisler, seguace della teoria degli archetipi di Jung, la stessa origine del meccanismo sadomasochista starebbe in un processo evolutivo risalente agli uomini delle caverne. Dice Eisler, in un saggio pubblicato nel 1951 che, quando l’umanità, sotto la spinta di condizioni avverse, passò dall’alimentazione a base di vegetali a quella carnivora, non fece altro che imitare lo schema sociale dei lupi. Vita di branco, caccia in gruppo, gerarchia, rispetto, fiducia reciproca, mai abbandonare il compagno in difficoltà. L’Uomo-Lupo, il licantropo, è dunque un mito che ha una sua radice antropologica reale.
Ci siete arrivati? Penso di sì. Quale squadra di football poteva incarnarsi nei traumi della licantropia e del masochismo meglio della Associazione Sportiva Roma? Emblema di una città un tempo dominatrice e generata da una Lupa etrusca? Non c’è un eguale. Davvero!
Il transfert vissuto da Zaniolo non è, quindi, un qualcosa di cui lui sia minimamente responsabile. Zaniolo non ne è l’autore, il regista, il creatore. Egli è solo il personaggio principale. Tutto il resto l’ha fatto il coro greco. I tifosi, i veri romanisti, sono gli autori. Essi posseggono la profondità di spirito indispensabile per ordire un dramma “psycho” del genere. Questo perché lo volevano. Nell’inconscio, fortemente, disperatamente, lo esigevano. Nicolò era stato il guerriero eroico dell’ultima conquista, la Conference Cup. Non è sfuggita a nessuno l’esagerazione delle celebrazioni di una vittoria che, al nord o sulla sponda laziale, è stata tacciata come una cosa piccola, il primato in classifica nella Serie C europea! Ma il fatto è che erano trascorsi 21 anni dalla pompa di Totti, il ciclo aveva la giusta tensione a riproporsi, la ricarica elettrica andava effettuata, la vendetta portata a termine, la pompa celebrata. L’Orgoglio doveva essere soddisfatto. L’area più romantica e anziana della Curva Sud, il gruppo dei Fedayn, prontamente l’ha sottolineato. La sconfitta con la Cremonese si è inserita nel processo catartico. Un sacrificio necessario.
Quello dei romanisti per la ASR è un amore infinito con un vizio dentro. Tutto il sistema masochistico si basa sul rapporto eros-thanatos, amore-odio, aspettazione e disillusione, un doppio piacere. C’è un ciclo e i tempi vanno rispettati. Il brutto è che il sistema si auto-alimenta. Non ti lascia vivere un’esistenza “normale”. I tifosi della “Magica” non si sentono affatto uguali agli altri tifosi. In effetti, sotto gli aspetti appena illustrati non lo sono. I laziali, pure, tentano di copiarli in quanto a vittimismo, ma manca loro il Nome. Che è tutto. Una identità profonda. Ogni conquista, ai sostenitori giallorossi, costa molta più fatica che agli altri, o almeno questa è la sensazione che piacevolmente sperimentano. Il vittimismo e l’esaltazione smodata, il disturbo ciclotimico, sono due aspetti altalenanti del sistema. Nella storia della AS Roma si innalzano a cardini evidentissimi. Due bastioni.
Un autentico loop, credetemi. Immagino che il mio amore per la ASR nasca dalla constatazione che siamo, io e la ASR, assai simili. L’amore per la SS Lazio, invece, è quello mio “normale”, naturale, non malato, scaturito dall’affetto fidente di un bambino per il padre.