Diritti negati in un inferno tossico, la storia, mai raccontata prima, della palazzina dei laminati a freddo all’Ilva di Taranto
La lunga lotta sindacale sembra essere repressa nei ricordi degli ultimi 40 anni. Le conquiste sociali sembrano essere attualizzate, affiorando ancora come germogli da una logica capitalistica che si contrappone al proletariato operaio. Una storia che appartiene al passato, nei nostri ricordi, nella letteratura, nei telegiornali, nelle manifestazioni operaie. Forti contro deboli, capireparto contro operai, buoni contro cattivi.
E come se non bastasse, interrogazioni per tanti anni senza risposta, una storia quasi mai scritta nelle aule parlamentari che solo di recente si sono timidamente affacciate a quella ancora statica attualità che trasuda, nei fogli delle denunce non solo tarantine, danni ambientali, ma soprattutto la pesantezza delle condizioni di lavoro e i rischi per la salute all’interno di quegli impianti.
Oggi come ieri, e come anche l’altro ieri, le tragedie si ripetono con loro storie folli di sfruttamenti, malattie, morti sul lavoro e tante parole violentate nel nome della prevenzione.
Palazzina LAF, dal nome del settore dei Laminati a Freddo dell’Ilva, è la storia simbolo di questo, quella raccontata attraverso il viso di Michele Riondino, che interpreta uno dei tanti operai che lavorano nel complesso industriale. Una storia di mobbing, di rifiuto e di persone classificate a loro volta come rifiuti, una storia che abbiamo già apprezzato nello scorso festival del cinema di Roma e che oggi si arricchisce della statuetta del David di Donatello come miglior attore protagonista. Alla casa del cinema, nella proiezione odierna, la presenza a sorpresa di colui che ha dato un volto ad una storia protagonista della cronaca, di cui ancora i lati oscuri, o meglio quelli oscurati, devono ancora essere mostrati. Colui che in diretta televisiva ha alzato quel premio, un premio che forse in piccola parte, appartiene al cuore ed alla vita di quegli operai scomodi relegati nella palazzina LAF, quelli di serie B che, per strategia premeditata, hanno subito pressioni psicologiche fino ad essere spinti alle dimissioni o al demansionamento. Un inferno senza via d’uscita.
Proprio di questi giorni la polemica delle maestranze proprio della cerimonia dei David di Donatello al teatro 5 di cinecittà. Le statuette destinate a coloro che, dietro macchine di ripresa, nelle sartorie, trucco e parrucco, non sono state conferite nella sala di ‘prima classe’ del teatro addobbato a festa, ma sugli scalini di una bella scala, lontano da quella platea che invece è attentissima alle premiazioni ad attori e registi in scintillanti vestiti e sbrilluccicose pajettes.
Certo che poi i proclami dal palco delle premiazioni, che decantano quasi sempre all’unisono: “questo premio è dedicato a tutti coloro che con il loro lavoro hanno permesso di realizzare questo film”, va a cozzare ancora una volta tra una tipologia di lavoratori ed un’altra, una divisione di certo non inclusiva, uno stesso premio ma ben diverso in base a colui che lo alza come trofeo. Serie A e Serie B, capitalismo da una parte, proletariato dall’altra.