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“La parola ai giurati” al Teatro Ciak di Roma

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foto: Salvatore Orfino

Un uomo è morto, la vita di un altro è in gioco. Così comincia “La parola ai giurati”, uno spettacolo messo in scena, a Roma, dalla Compagnia del Teatro Stabile del Giallo, recentemente insediatosi nel teatro Ciak di via Cassia a Roma.

In questa pièce teatrale non esiste un nome di un personaggio, eppure sono presenti dodici personaggi o meglio dodici giudici popolari identificati da un numero progressivo secondo l’ordine di chiamata in tribunale, divisi per età, ceto sociale, livello culturale ed educazione. Sono rinchiusi in un’afosa, soffocante stanza di tribunale con un ventilatore – unico appiglio contro l’afa – che sembra non funzionare, mentre un’imperdibile partita di baseball si sta per disputare. Non un nome dei giurati, non un nome di chi è sotto processo, ma semplimente “il ragazzo”; non un nome dei testimoni chiamati in causa, ma solo “la donna” e “il vecchio” e il tutto è ambientato in una sola stanza, dove si riuniscono i giurati per l’emanazione di un verdetto. Devono decidere infatti, all’unanimità, la sorte di un sedicenne di un quartiere americano degradato che sembrerebbe vendicarsi delle violenze del padre, uccidendolo; un verdetto non unanime porterebbe alla ripetizione del processo.

La posta in gioco è altissima: sedia elettrica per il ragazzo. La staticità del set teatrale, eccezion fatta per piccolissimi momenti in cui l’attenzione dello spettatore si sposta verso una toilette, luogo di confidenze, in realtà non pesa assolutamente, in quanto i giurati si trovano a esercitare “la cosa più notevole della democrazia”: la responsabilità. Il loro giudizio non riesce a prescindere dalle loro idee, dai loro pregiudizi, dalle discriminazioni razziali, più o meno inconsce, dalle meschinità egoistiche e assume quindi il sapore di una rivalsa personale sulle proprie sconfitte e bassezze, sulla difficoltà di separarsi dalle proprie certezze. Un dubbio, un ragionevole dubbio, è l’àncora di salvezza; l’unico dubbio a cui il giurato numero 8 si appella. Un miracolo, quindi, sulla sorte del ragazzo, probabile omicida. Una riflessione, “tanto la partita non comincia che alle 8” che fa partire un percorso esplorativo che analizza ogni possibile dubbio, ogni prova presentata in tribunale e, soprattutto, prende in esame la povertà di una situazione che costringe un imputato a essere difeso da un avvocato d’ufficio senza un reale interesse di difesa.

Una sentenza e una serie di riflessioni che trattano un valore etico trascinante, i cui temi – la discriminazione e la difficile integrazione razziale, la pena di morte, la necessità dell’ascolto degli altri, dell’uso dello strumento del dubbio, di ogni ragionevole dubbio e della ragione nei giudizi – sono, oggi, incredibilmente attuali. Attraverso dialoghi eccezionali e perfetti, tutti i personaggi mettono a nudo le proprie verità celate.
“La parola ai giurati” inchioda alla poltrona poiché la narrazione fluisce senza un attimo di pausa; un racconto in “tempo reale” e con un meccanismo narrativo basato esclusivamente sui dialoghi – senza neppure l’ausilio dei canonici flashback – che scorre fluido. Un’impersonificazione dello spettatore in almeno un personaggio sulla scena, un momento di riflessione sulle vicende giudiziarie di ogni tempo.

Un cast composto da Paolo Romano, Gianni Franco, Alessio Caruso, Massimiliano Buzzanca, Sergio Mancinelli, Massimiliano Giovannetti, Enrico Ottaviano, Matteo Micheli, Diego Casalis, Rocco Piciulo, Livio Remuzzi e con la partecipazione di Gianni Garko, diretti da Raffaele Castria.