Era una notte di fine agosto quella di cinque anni fa e Roma venne scossa da vibrazioni, sensazioni già vissute anni prima, dopo il terremoto dell’Aquila. Una sensazione di impotenza ed apprensione ma sopratutto paura che scosse i romani, tanto quelli rimasti in città avvolti nel caldo estivo, quanti quelli in vacanza più a nord nel territorio di Rieti, quelli della casetta in campagna, quelli che “qui si respira l’aria buona”, quelli che cercano un po’ di fresco serale e notturno alle pendici del Terminillo.
Scosse sismiche che si fanno sempre più intense con il passare del tempo, scosse che disorientano tutti intorno, scosse che sicuramente creano morte da qualche parte, non si sa bene dove, fino all’annuncio nell’edizione straordinaria del telegiornale che indica il punto esatto.
Amatrice, questa la parola devastante, che riecheggia come una bomba, quella cittadina in cui ero stato pochi giorni prima, alla ricerca di un buon piatto di pasta, a pochi chilometri di distanza da dove godevo dell’aria fresca lontano dalla città, pochi minuti di distanza di macchina, quella cittadina dove tra pochi giorni avrebbe organizzato la famora sagra degli spaghetti all’amatriciana.
Ancora un controllo alle mura di casa alla ricerca di lesioni, con i vicini ormai in strada. Qualche crepa nell’intonaco, ma nulla di esteso o profondo, mobili spostati, qualche oggetto caduto in terra, le colonne del cancello, quelle si, lesionate, ma la casa costruita da mio nonno ha tenuto, costruita in solido cemento armato, antisismica già da allora.
Avevo attrezzatura fotografica con me, portata immediatamente nel portabagagli della macchina per metterla al riparo ancora nel buio della notte. Amatrice, così vicina di strada e nel cuore. Una parte dei ragazzi del paese erano stati proprio lì quella sera, fino a qualche ora prima.. una sorta di evento gastronomico lungo il corso, una delle numerose sagre estive. Il ritorno poche ore prima delle scosse, dopo aver smontato un gazebo di prodotti, ed un ultimo caffè nella piazza del paese.
Amatrice, con mia figlia quindicenne ci guardiamo, le macchinette fotografiche sono già in macchina, una sola parola: andiamo.
Il buio ancora ci avvolge mentre risaliamo la Salaria. I primi lampeggianti dei soccorsi illuminano le poche curve che ci separano. Arriviamo ad un bivio che porta poi alla salita per il paese. Non ci fidiamo a passare con la macchina perché un ponte sembra non essere troppo stabile. Salgono solo i soccorsi, noi proseguiamo a piedi negli ultimi 6 chilometri in salita.
Non siamo soli, ci accodiamo ad una lunga coda di persone, che silenziosamente sale verso la tragedia, con guanti pesanti, pale, carriole. Sono i giovani delle località limitrofe che salgono per dare una mano. Gli automezzi di soccorso continuano incessantemente a salire, alcune macchine invece scendono dalla montagna, sono coloro che scappano dal disastro, molte persone scendono pallide a piedi, bambini senza scarpe, genitori avvolti nelle coperte, tante lagrime sui volti, occhi sbarrati di disperazione.
Gli obiettivi pesano, ma il peso non si sente. Si vede ancora tanta polvere nascere dai crolli, l’aria si fa sempre più densa, si respira il dolore misto a polvere. Ultime curve si arriva nei pressi dell’ospedale dove è ancora in corso l’evaquazione d’emergenza. Barelle spostate in quello che prima era un parcheggio, proprio sull’ultima curva prima di entrare nel paese, ma il paese non c’è più. Tutti fuori, con i teli a proteggere i malati più gravi ed il personale sanitario sconvolto tra massaggi cardiaci e respirazioni artificiali manuali.
Solchi in terra nell’asfalto, persone che corrono da una parte all’altra per fare un appello, per contare chi manca. Ne mancano tanti, troppi, persone che si abbracciano in strada piangendo gridando un nome, quello di un bambino che non ce l’ha fatta.
Paesaggio spettrale, non c’è ancora una zona rossa, ma la zona è tutta rossa. Arriviamo a ridosso dell’inizio del corso. Un corso che non esiste più. Cumuli di macerie, spezzoni di palazzi violati dallo sguardo, con lampadari ancora dondolanti, camere da letto, armadi spalancati sono ciò che restano nelle poche case ancora parzialmente in piedi, il resto cumuli di sassi su cui iniziano ad arrampicarsi pompieri, finanzieri e poliziotti spostando sasso per sasso alla ricerca di un suono, di un grido.
Grida e lamenti che provengono da quell’inferno, nel silenzio più assoluto. Una vera e propria catastrofe, le prime barelle che corrono velocemente avvolte dalle copertine metalliche, un’altra vita forse strappata dall’incubo, anzi no, ha il volto coperto.
La luce del sole ora illumina tutto, l’obiettivo della macchinetta fotografica cerca di riprendere il disastro, ma evita di andare sui particolari, non ce la faccio a riprendere un volto coperto di dolore, il volto di qualcuno che non ha visto l’alba. Sono ripresi solo i cumuli di macerie, un soccorritore che si arrampica con un cane, una casa divelta, un corso ormai inesistente ridotto ad una pianura arida, un terzo piano che ormai è diventato un piano terra.
Odore di gas, nervi a fior di pelle, arrivano le prime troupe televisive che iniziano i collegamenti con le edizioni straordinarie. Con mia figlia ci sediamo sul ciglio della strada prima di riprendere la via del ritorno. Non possiamo fare nulla, ci sono i soccorritori, non possiamo scavare noi, rischiamo di peggiorare le cose. Rimaniamo increduli al bordo della strada.
I poliziotti portano via una persona in manette, un primo sciacallo italiano che ha scavato tra le macerie alla ricerca di qualsiasi cosa di valore, ma soprattutto di documenti di identità. Decidiamo di non scattare foto mentre persone si avventano su di lui che rimane a testa bassa e con i polsi bloccati, protetto dalle forze dell’ordine.
Ormai è mezzogiorno, cominciamo a scendere incontrando ancora tanti che scappano da quell’inferno, sia nelle macchine che hanno raccolto le uniche cose rimaste, sia a piedi ancora senza scarpe. Il ponte di accesso è stato ora bloccato e presidiato. Possono passare solo i soccorsi per salire.
Torniamo in un bar di un paese vicino, alla ricerca di un collegamento internet per inviare le fotografie in redazione nel silenzio più assordante. Ora si, possiamo piangere anche noi.