


Il derby di Roma dovrebbe essere una festa, un momento di passione, un’esplosione di appartenenza incanalata nei colori, nei canti, nelle coreografie che rendono unico l’Olimpico. E invece si è trasformato, ancora una volta, in un campo di battaglia. Una spirale di violenza che ha il sapore amaro dell’assurdo, soprattutto in tempi in cui la cronaca mondiale ci restituisce quotidianamente immagini di conflitti ben più gravi e devastanti. Che senso ha, allora, aggiungere altra rabbia, altra ferocia, proprio dentro a quello che dovrebbe essere solo sport?
La giornata che ha preceduto il derby Lazio-Roma, andato in scena alle 20.45 allo stadio Olimpico, si è tinta di violenza e caos. Tredici agenti feriti, scontri in più punti della città, petardi, bottiglie, cinture usate come armi, auto danneggiate, cassonetti in fiamme e un passante colto da malore nella confusione di Ponte Milvio. Traffico bloccato, cittadini terrorizzati, e una domanda che torna prepotente: perché tutto questo?
A fronteggiarsi non solo le due tifoserie storiche della Capitale, ma anche le delegazioni straniere giunte a Roma per dare manforte agli ultrà. Con i laziali i bulgari del Levski Sofia – circa cento i presenti – gemellaggio radicato e ideologicamente connotato. Dall’altra parte, accanto ai romanisti, i croati “Bad Blue Boys” della Dinamo Zagabria e i greci del “Gate 13” del Panathinaïkos. Presenze che avrebbero dovuto rappresentare una festa di colori e fratellanze europee, ma che si sono trasformate in detonatori di nuove tensioni.
Nel pomeriggio, a poche ore dal fischio d’inizio, la situazione è precipitata. Un primo contatto tra gruppi rivali è stato registrato in via Flaminia, dove romanisti e laziali – con al seguito tifosi del Lipsia – sono venuti alle mani utilizzando le cinture dei pantaloni come fruste. Subito dopo, un gruppo di circa 300 romanisti ha tentato di raggiungere Ponte Milvio, cuore pulsante del tifo biancoceleste. È servito l’intervento massiccio della Digos e l’uso degli idranti per riportare la calma sotto una pioggia di bombe carta. Il bilancio è pesante: tredici agenti feriti, sette auto danneggiate, rifiuti incendiati, vetrine rotte.
Non è mancato neppure l’episodio grave che coinvolge la componente estera del tifo. Un gruppo di sostenitori del Levski Sofia, gemellati con la curva Nord, è stato aggredito nei pressi del ponte Duca d’Aosta da ultrà romanisti. Uno di loro è rimasto ferito. Gli aggressori si sono dileguati prima dell’arrivo delle forze dell’ordine.
Il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha definito l’accaduto “inaccettabile” e ha annunciato nuove misure: “Si susseguono vergognosi attacchi contro le forze dell’ordine – ha dichiarato – A fronte di comportamenti indegni, oltre al decreto sicurezza appena varato, siamo determinati a procedere con ogni strumento necessario a tutelare l’incolumità di chi è in divisa”.
Nel frattempo, la città mostra le sue ferite. Su Ponte Milvio resta un tappeto di cocci di bottiglia, le carcasse dei cassonetti anneriti, la tensione palpabile tra le strade. Il presidente del XV municipio, Daniele Torquati, ha parlato di “uno spettacolo lontanissimo dallo sport, dalla passione per la propria squadra e dal vivere civile”. Parole che suonano come un grido d’aiuto di fronte a un fenomeno che sfugge sempre più al controllo.
In mattinata, le bonifiche della polizia avevano già restituito un quadro preoccupante: tubi di ferro, mazze, manici di piccone nascosti sotto le auto. Un arsenale urbano pronto all’uso. E intanto, mentre le tifoserie allestivano le rispettive coreografie con dedizione e creatività, fuori dallo stadio si preparava un altro tipo di spettacolo, ben più inquietante.
Che resti una domanda, allora, come un monito: in un mondo già segnato dalla guerra, è davvero questa la battaglia che vogliamo combattere la domenica?









