Alessandra Pontecorvo, classe 1984, pugliese salentina di nascita e romana di adozione, è laureata alla facoltà di Scienze Umanistiche dell’Università La Sapienza di Roma. Già coautrice del saggio “Meritiamoci l’Università” (Eclettica edizioni), lavora nell’ambito della comunicazione istituzionale e politica e dell’organizzazione di eventi. La sua esperienza di “impanicata” inizia all’età di 16 anni e ciò la rende una profonda conoscitrice empirica del problema, nonostante non abbia competenze mediche.
Sfogliando le prime pagine troviamo la prefazione della Campionessa Mondiale e Olimpica di Nuoto in vasca, Federica Pellegrini, vittima di attacchi di panico durante (e non solo) gare importantissime nella propria vita e per la sua carriera. “Accade, nella vita, che a un certo punto avvenga qualcosa che non ci aspettiamo e che apparentemente non ci appartiene. Eppure questo evento inaspettato lascia un segno profondo dentro di noi e, se all’inizio crea solo paura, nel tempo ci insegna ad andare avanti e ad evolvere verso una versione più forte, più determinata, di noi stessi. […]”.
In queste 91 scorrevolissime pagine di mera esperienza personale capiamo subito – da alcune citazioni – che musica e soprattutto parole di un certo cantautorato italiano hanno giocato e giocano un ruolo fondamentale nell’esistenza dell’autrice. Ma lasceremo che ad entrare nello specifico sia il lettore, pagina dopo pagina.
INTERVISTA
Chi è Alessandra Pontecorvo? Come e quando nasce l’idea di rappresentare il panico in un libro?
«Domanda da un milione di dollari. Non lo so chi sono, so come mi descrivo sui social, sulla quarta di copertina del libro e so cosa faccio o cosa mi piace fare, ma chi sono è una domanda a cui non ho una risposta precisa. Sono una donna con mille interessi, che ha fatto mille cose diverse nella sua vita, ha vissuto molte gioie e ha combattuto molte battaglie, come tutti. Sono un’impanicata da 19 anni, convivo con questa condizione dell’anima, che sono il panico e l’ansia, da quando ero al liceo.
L’idea di mettere la mia esperienza nero su bianco nasce circa due anni fa, quando il panico è tornato prepotente e ho deciso che, invece di nascondermi, l’avrei mostrato con orgoglio, come una parte di me. Ho iniziato a parlarne più spesso e con più persone e poi ho deciso di scrivere questo manualetto, forse anche per la pigrizia di non voler sempre ripetere le stesse cose. È un po’ come dire ‘Leggi! Quello che mi succede lo trovi descritto a pagina x, non puoi più dire che non lo sapevi!’. Avevo bisogno di scoprirmi…».
Proseguiamo la nostra intervista all’autrice con una domanda mirata alla – ancora purtroppo troppo frequente – disparità di diritti sul lavoro, tra un dipendente con, ad esempio, una febbre da influenza o altro tipo d’indisposizione riconosciuta e un altro con attacchi di panico.
L’attacco di panico è sempre più frequente nella popolazione ed è riconosciuto – anche dal Ministero della Salute – come un vero e proprio disturbo, un disagio temporaneo, anche quando ripetuto, che devia la serenità psichica di chi ne soffre e, spesso, delle persone vicine. Tuttavia non si è ancora riusciti ad annoverare queste esperienze di “paura apparentemente immotivata” tra le patologie riconosciute sul lavoro.
Equivale a dire che se una risorsa sia affetta da febbre, se subisca la frattura di un arto o se in essa si riscontri una sindrome scientificamente provata, la stessa potrà godere di stimati giorni di “malattia” sul posto di lavoro. Non è (ancora sempre) riservato lo stesso trattamento, invece, se la persona soffre di attacchi di panico.
Perché secondo Alessandra Pontecorvo? Cosa è stato fatto e cosa ancora si potrebbe fare, a livello sindacale, istituzionale, per tutelare un “impanicato”?
«Non ti nego che uno dei motivi per cui ho scritto “Vita da impanicati” è anche questo. Non che mi aspetto che questo cambi radicalmente la situazione, però ho lavorato per tanti anni nelle istituzioni e ho imparato che lamentarsi dello stato dell’arte e non provare a fare nulla per smuoverlo non è una soluzione.
Con questo libro ho fatto la mia parte, e l’ho fatta fare anche al Senato della Repubblica quando è stato presentato un Disegno di Legge per il riconoscimento dei Disturbi d’Ansia come malattia sociale.
È ovviamente una goccia nell’oceano, ma da qualche parte bisogna cominciare. Anche se, purtroppo, credo sia una questione soprattutto culturale. I disturbi mentali, per quanto il panico e l’ansia siano una delle forme più lievi di questa categoria, sono ancora, troppo spesso, considerati un tabù. Se vai dallo psicologo sei “pazzo” (nell’accezione discriminatoria del termine, n.d.r.) e se ti fai sopraffare dalla paura sei debole. E in questo mondo, dove tutti devono necessariamente apparire sani e forti, essere “fragili”, quale che sia la tua fragilità, non è socialmente accettato. Ne ho sentite dire di tutti i colori a me e ad altri, come “che siamo esagerati, che facciamo i capricci, che ci nascondiamo dietro le lacrime, che tutti hanno i loro problemi e vanno avanti lo stesso”. Finché non sdoganeremo l’idea di “debolezza”, ogni iniziativa in questo senso sarà utile, non fosse altro che per riconoscerci tra di noi e sentirci meno soli.»
Ricordiamo che questo “manuale” è volutamente diviso in due parti: “Cose da dire o non dire, cose da fare o non fare se si ha accanto (e le si vuole bene) una persona impanicata”.
Non in molti si sono approcciati al tema costruendo una chiave di lettura da questa prospettiva, ossia dalla parte di chi non soffra di attacchi di panico, ma sia vicino a una persona che ne è afflitta.
Quale ruolo ha, o sarebbe positivo avesse – secondo te, Alessandra – una persona che si trovi al cospetto di un soggetto in preda ad un attacco di panico?
«Ho scelto di dedicare una parte del libro anche a loro perché, negli anni, ho riscontrato vari tipi di approccio al mio malessere. Mi è sembrato quindi corretto dare delle “istruzioni” anche a chi sia un protagonista inconsapevole del problema, per provare a dargli degli strumenti che possano aiutarlo, almeno, a non peggiorare le situazioni. Ora, sarò sincera, ho incontrato persone totalmente incapaci di approcciarsi al problema e quindi è partendo da loro che ho scritto la seconda parte. Mi sono rivolta ai più “lontani”, anche nello stile di scrittura sono stata diretta, alcune volte “violenta”, ma ho preferito partire da zero per non lasciare margini ad alibi.
Spesso chi si trova a dover gestire persone che soffrono di attacchi di panico non si rende conto di giocare un ruolo fondamentale ove possa essere artefice o risolutore di una crisi con un solo gesto o una parola giusta (o sbagliata) al momento giusto (o sbagliato).
È anche vero, però, che altrettanto spesso le persone vicino ignorano completamente, tanto il problema quanto le sue manifestazioni, quindi aspettarsi dagli altri un “approccio corretto”, senza dar loro alcun tipo di strumento, sarebbe davvero chiedere troppo. Ognuno deve fare la propria parte, motivo per cui il libro è rivolto ad entrambe le categorie. Come direbbe Hemingway – e non il claim di una nota catena di supermercati, ahimé! -, “Nessun uomo è un’isola, completo in se stesso; ogni uomo è un pezzo del continente, una parte del tutto”.»
Il libro, o “manualetto”, come preferisce definirlo confidenzialmente Alessandra Pontecorvo, è uscito lo scorso ottobre ed è già andato in ristampa, addirittura dopo pochissime settimane; fenomeno molto incoraggiante per un autore.
Quali esiti ha dato, su di te, questa notizia? La richiesta ti ha allarmato o l’hai percepita come inversamente proporzionale al problema?
Pensare che vi siano tante, sempre più persone nella tua stessa condizione di “impanicata” accresce la tua ansia oppure l’aumentare del fenomeno può in qualche modo essere percepito come rassicurante per chi soffre di attacchi di panico, quasi un “non sentirsi più così soli”?
«Non nego che una certa soddisfazione personale ci sia, è ovvio. È comunque un progetto su cui ho investito e quindi vederlo prima venire alla luce e poi crescere non può che farmi piacere.
Onestamente non mi allarma molto. L’ho scritto proprio per portare il problema all’attenzione di molti e per dare un “posto sicuro” a chi è ancora troppo fragile o troppo imbarazzato per parlarne o addirittura per ammettere a se stesso di avere un problema.
Devo dire che sapere che un pezzo della mia vita è stato reso pubblico non mi ha provocato molta ansia, stranamente. Me la provocano un po’ le presentazioni, specialmente quelle in cui ci sono molte persone che conosco e che mi conoscono, perché, nonostante nelle pagine di “Vita da Impanicati” io mi sia messa molto più a nudo di quanto faccia nelle presentazioni o nelle interviste, avere di fronte le persone che lo hanno letto, e quindi prendere coscienza reale che quei pensieri non sono più solo miei, un po’ mi crea disagio. Ma fa parte del gioco. Il quarto capitolo della prima parte si intitola “Non vergognarti”: lo rileggo ogni volta che devo parlare in pubblico del mio libro e mi ricordo il perché l’ho scritto.»
Il libro “Vita da impanicati – Istruzioni per l’uso” è edito dalla Giacovelli, casa editrice per cui l’autrice ha speso parole di profonda stima e gratitudine per aver creduto in un progetto tanto utile quanto delicato e che sarebbe andato a prendere un posto nel mare aperto di un tema ancora piutosto imperscrutabile.
• 28 febbraio: incontro con gli studenti del Liceo Scientifico di Francavilla Fontana (BR)
• 6 marzo: presentazione del libro in collaborazione con Fidapa, Bitonto (BA)
•• 15 marzo: Biblioteca Comunale di Lanuvio (RM)
• 29 marzo: Libreria Angolo Retto, Locorotondo (BA)