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“Ero depresso mi sono aggrappato ad un sogno”. Conversazione intima con Roberto Di Sante

Giornalista e autore teatrale. Dal 2013 runner, è tra gli italiani che hanno completato le Six World Majors Marathon. Lo spettacolo al Bar La Certosa il 5 luglio

Ho scelto lui per questo caldo e instabile mese di luglio. Giornalista, scrittore, ex depresso, runner felice. Dai natali profondamente laziali, Roberto Di Sante è nato ai Castelli romani ed è un piacere ascoltarlo. Racconta per immagini, ti porta nella sua vita vecchia e nuova senza gran pudore, animato dal piacere e dalla missione della condivisione. “Sono un cronista”. Era crollato, vice capo degli interni a Il Messaggero negli anni cui faceva da sfondo il naufragio della Costa Concordia e cominciava il Governo Monti. “Un attacco di panico mentre ero al cinema”. Iniziò tutto così. Di Sante racconta: “Pensavo di morire, mi sentivo spegnere il cuore, al Pronto Soccorso mi hanno detto che era panico. Ho trascorso giorni di malattia. Avevo bisogno di un bravo specialista. L’ho trovato, ora siamo amici. E’ uno psichiatra, mi ha aiutato tanto, curando il corpo ed anche l’anima”. Vederlo come sta oggi, leggere cosa ha fatto e i riconoscimenti che ha ricevuto, è difficile da credere. La cosa mi inquieta piacevolmente. Roberto Di Sante scrive, crea sceneggiature, corre e ama le citazioni. Questa la uso io prendendo in prestito un modo di dire giapponese: “trasformare il veleno in medicina”.

Il suo veleno era la pressione di un lavoro giornalistico troppo intenso?

Ero sotto stress al giornale, ma c’erano altri motivi scatenanti che ho scoperto in seguito. Sono rientrato a Il Messaggero dopo 16 mesi, avevo una gran paura, il mio psichiatra la sera prima che rientrassi in redazione mi sostenne con una frase di Isabella d’Este: ‘Vai senza speranza, ma senza paura’. Da allora ho vissuto anche il lavoro con gran serenità, anni belli prima del prepensionamento. C’era la corsa che mi accompagnava.

La corsa, quel veleno trasformato in medicina. Siamo qui a parlarne per questo

Ero abbandonato su una panchina, era il mio sepolcro, mi stava inghiottendo, ho capito in quel momento che se non mi aggrappavo a qualcosa di impossibile, un filo luminoso che sostiene, come le lenzuola annodate per i carcerati che vogliono evadere, sarei rimasto lì e mai più rialzato. Avevo bisogno di un sogno impossibile, in quel momento mi sono passati davanti dei runner. Mi è venuta in mente l’immagine della Maratona di New York, si, quello era il mio sogno impossibile. Correrla. Più impossibile di così? Io che per fare 100 mt prendevo la macchina. Mi è tornata alla mente anche la storia di Gianni Poli, mito della maratona italiana e mondiale, che nel 1986 ha vinto New York. Uno che lavorava in fabbrica e poi andava ad allenarsi.  Su quella benedetta panchina ho capito. Ho deciso. Avrei corso quei 42 km e 195 mt, avrei attraversato di corsa insieme ad una marea di gente il ponte di Verrazzano, sarei arrivato a Brooklyn, a Manhattan. Aggrappato a questo filo, che ho impensabilmente individuato, è iniziata la mia rinascita.”

Praticamente cosa ha fatto?

Vicino casa mia c’era la sede dell’Atletica Tusculum, sono andato lì ed ho chiesto: ‘voglio iniziare a correre cosa devo fare?’ ‘Le scarpe’, mi hanno risposto, ‘acquista un ottimo paio di scarpe, sono essenziali per iniziare bene, altrimenti puoi farti male ai piedi’. Sono quindi entrato in un negozio di articoli sportivi ed il commesso ha fatto il resto, era uno che correva ed era anche fisioterapista, mi ha fatto una tabella di allenamento, è diventato il mio coach. La corsa mi raddrizza qualsiasi giornata storta, è la mia medicina. Ti svegli morto e torni a casa vivo.

E New York?

Solo 11  mesi dopo ero lì. Emozionato alla partenza da Verrazzano, ho capito che ero anche io tra quelle 50 mila storie  che stavano per partire e che ero passato dall’essere comparsa nella vita a protagonista. Avvertivo emozione ma anche paura, mi aspettava un percorso lungo, una grande sfida. Era tutto reale.

Sta mostrando anche a noi quel film, ha una grande capacità evocativa con il solo uso delle parole e del tono di voce

Deriva da un paio di cose, sono cresciuto in pratica in un cinema a Marino, dove sono nato, era di mio padre. I miei compagni di giochi erano tutti quanti gli attori italiani. Da ragazzo ho fatto teatro, avevo messo su una mia compagnia.

Non si è più fermato, sole o pioggia, ha scritto un libro, Corri. Dall’inferno al Central Park, da qualche tempo è anche spettacolo teatrale, lo porta in giro per l’Italia e lei stesso gira per convegni di psichiatria a raccontare la sua storia, a motivare gli altri, lo ha donato anche a Papa Francesco

Ho avuto questa possibilità e gli ho detto: E’ un piccolo libro di speranza per un grade uomo di speranza’. Ha sorriso, ed è stato bellissimo. Gianni Poli, invece, è una figura importante per me, ora siamo quasi fratelli, e da 10 anni partecipo alla Cortina-Dobbiaco che lui organizza. Una volta, per salutarlo alla partenza, sono caduto e mi sono rotto due costole, ma seppur dolorante ho finito i 30 km della gara. E poi il libro, sì, certo, ho voluto scriverlo, sono un giornalista non potevo tenere quest’esperienza solo per me.

Il meglio è sempre nella condivisione, concordo. Il 5 luglio lo spettacolo che prende il titolo da libro va in scena a Roma, al Bar La Certosa

Per la rassegna ‘Bar Campioni – Dove c’è un bar c’è un teatro’, è una bella cosa. Quest’anno celebra volti e storie legate a doppio filo allo sport.  Con ‘Corri’ debuttammo a ‘Sport Opera’ a Napoli, sezione del Teatro Napoli Festival, la regia è di Ferdinando Ceriani, le musiche sono di Giovanna Famulari. Aldo Amedei, il protagonista che riemerge dalla depressione grazie alla corsa, è interpretato da Sebastiano Gavasso.

Dall’inferno è uscito, a Central Park è più tornato?

No, non sono mai più andato a New York. Però, mai dire mai.