Il 30 ottobre torna all’Alexander Platz l’artista che ha creato la corrente del jazz napoletano. “La musica di New Orleans degli anni ’20 era afro-italo-americana, si sente l’influenza bandistica italiana”
E’ necessario ascoltarlo, dal vivo, per penetrare il suo mondo e farsi piacevolmente e delicatamente sconquassare dalla dolcezza e dalla potenza che sul palco genera. E vi assicuro è una sensazione da rottura di argini emotivi. Il concerto di Antonio Onorato & David Blamires Quartet alla rassegna “Voci d’autunno” di Torre del Greco ha fatto alzare tutti in piedi. Onorato è il jazz, inteso come improvvisazione vera, innestata su una solida base di tecnica, cultura e passione. Riconoscibile. “Ho conosciuto personalmente David Blamires due anni fa – spiega – ha suonato con Pat Metheny Group per 10 anni, ha partecipato a quattro album che hanno vinto il Grammy Award. Abbiamo fatto un lungo viaggio insieme in macchina, guidavo io, abbiamo parlato tanto. E’ nato il progetto ed un’amicizia fraterna, sul palco si sente.”
Lo show con Blamires è uno degli spettacoli che attualmente sta portando in giro, l’altro è “Antonio Onorato Neapolitan Jazz Quartet”, con cui il 30 ottobre ritorna a Roma…
Quello dell’Alexander Platz, è un concerto diverso, suono insieme a Gianni D’Argenzio al sax, Angelo Farias al basso, Mario De Paola alla batteria. La musica che facciamo è genitrice e al contempo figlia della corrente musicale “jazz napoletano”, l’ho creata qualche anno fa, con desiderio, determinazione e studio, è un idioma singolare, inedito e non facile da imitare. Napoli ha una tradizione musicale enorme, unica, dal ‘700 in avanti si sono susseguiti compositori e maestri, evoluzioni non scontate. Un musicista assorbe, attinge a questo tesoro enorme, lo mastica con rispetto e ne esce sempre una cosa nuova.
Tutto nasce da quel jazz americano degli anni ‘20-‘30, che lei stesso definisce musica afro-italo-americana, quell’italo ci sorprende…
Beh quel jazz è frutto di un incontro, è definita musica nera, musica afro, e certo lo è. Ma è nata in terra americana, in ghetti, in zone sparse, abitate da africani ma anche da emigranti italiani. Se ci pensa il jazz è suonato principalmente con strumenti a fiato, la tradizione africana però non aveva fiati, quella bandistica italiana, invece, sì. C’è stata una crasi, una fusione, già allora. Perché non rivendicare tale genesi. Il musicista Nick La Rocca, papà siciliano, nato a New Orleans, a 15 anni suonava la cornetta, un tipico strumento della tradizione bandistica italiana e fu il primo ad uscire con Livery Stable Blues, che è considerato il primo disco di jazz al mondo, era il 1917.
Terra americana! Non è mai stato sedotto da tali luoghi pensando di trasferirsi?
Ho girato tanto e mi sono fermato in Pennsylvania per alcuni mesi. Ma io sto bene a casa mia, non me ne sono mai voluto andare via dall’Italia, per me il paese più bello del mondo, né da Napoli che amo profondamente. Sono un artista attento alle tradizioni, all’autoctonia, allo spirito che pervade i popoli, e alle numerose espressioni artistiche, a Napoli mi sento libero.
Nella sua formazione ci sono musicisti come Pat Metheny, Pino Daniele, Peter Gabriel, per citare quelli più riconoscibili anche nella sua musica… Non le dava fastidio quando veniva definito “quello che vuole fare il Pat Metheny”?
(Ride) Pat è stato a casa mia a Torre del Greco molti anni fa, con lui mi sono esibito in jam session private. L’accostamento è inevitabile nel mio caso, perché Metheny per me è stato un maestro, risento della sua influenza, ed è una delle influenze più importanti nel mio percorso, ma non è l’unica. La cosa quindi mi fa piacere, è la verità, ma se viene detto per denigrami allora no, chi lo dice è fuori strada. Senza voler peccare di arroganza, chi suona in quel modo siamo solamente io e Pat Metheny. Io non faccio lui, ho imparato da lui. Ho imparato l’espressività tecnica, non il come lui lo fa, ma il come si fa. E’ differente. Ho conosciuto questo straordinario artista quando avevo 20 anni, lui mi sentì suonare e un giorno mi disse ‘sarò sempre molto nervoso quando verrai ai miei concerti perché tu sai quando io sbaglio ’, fu un grande complimento per me. Ho fatto la mia strada. La mia musica ora è su un pianeta diverso, risente dei suoi insegnamenti, ma anche di tante altre contaminazioni incrociate nel mio percorso. Il 4 novembre suona a Roma, andrò a salutarlo.
Pino Daniele
Ho conosciuto giovanissimo anche lui. Pino mi ha dato sempre carta bianca, mi faceva improvvisare liberamente sui suoi brani, Joe Amoruso, pianista di Pino, mi diceva ridendo ‘ma che gli hai fatto a Pino…’ Mi piace ricordare Joe, mio amico fraterno scomparso quattro anni fa.
Peter Gabriel
Per me è un angelo disceso sulla terra che fa musica, ho chiamato mio figlio Gabriel in suo onore. Nella sua vita da cantante dei Genesis mentre era all’ apice ha lasciato il gruppo ed ha creato la Real World, producendo artisti di paesi lontani e poveri e portandoli all’attenzione del mondo. Ha impegnato sé stesso e gran parte dei suoi soldi per amore della musica e degli altri. Mi spiace solo che non ci sia stata mai l’occasione di suonarci insieme. Sa, un altro grande con cui vorrei suonare è Carlos Santana, apprezzo molto la spiritualità che emana ed il suo impegno sociale.
Lei come è messo quanto ad impegno sociale?
Mi sono ritrovato felicemente coinvolto in progetti per la costruzione di scuole in Angola, quando posso metto la mia musica al servizio di cause che sostengono i più deboli. Suono per beneficenza raccogliendo fondi, ma preferisco non dirlo.
Lei è cresciuto musicalmente nel trentennio ‘70/’90, quanto siamo distanti da oggi?
Era un periodo completamente diverso, soprattutto lo erano gli anni ’70. Non esisteva ancora un’ideologia di massa così appiattita. Ho vissuto tutto con maggiore libertà. C’era vivacità culturale, si sperimentava, già negli anni 70 era nato un movimento che ha portato a creazioni artistiche come la produzione dei Beatles o Jimi Hendrix. Io sono più aderente agli anni 80/90 per motivi anagrafici, ma resto affascinato dalla ricerca spirituale che c’era stata nel decennio precedente. L’uso delle droghe come LSD o Peyote, che non avevano nulla di sintetico, contribuirono ad ampliare la percezione e ad aprire porte creative. Oggi è tutta un’altra storia.
Il Live Aid, sarebbe improponibile oggi…
Il Live Aid fu un evento super partes, per l’Africa. Bob Geldof era visionario ed impegnato, oggi chi dovrebbe farlo, chi esce dai talent show? Nel 2002 ho suonato a Bagdad, in un concerto per la pace, una protesta contro la seconda guerra del Golfo. Si è rivelata per me un’esperienza importante. Mi ha aperto gli occhi su molte cose. La povera gente non c’entra mai nulla nelle dinamiche di potere. Oggi viviamo in un periodo di pressione bellica, ed è un dovere ribellarsi alla guerra, ma qualsiasi manifestazione in un modo o nell’altro è politicizzata e quando è cosi si è facilmente strumentalizzabili. Non amo partecipare con queste modalità. Ribellarsi alla guerra è di tutti, per tutti e di tutti colori, ma uniti.
Cosa farebbe per la pace?
Mi piacerebbe si potesse organizzare un concerto scevro dalla politica, senza infiltrazioni da una parte o dall’altra. Solo per la pace ed il benessere dell’umanità. Uso la mia musica per raccontare le emozioni, la vita. Nel mio cuore ci sono profondamente impresse due parole: mitakuye oyasin, significano ‘siamo tutti uno’, siamo collegati. Sono nella lingua dei Sioux Lakota, nativi americani a ne cari, finisco ogni mio concerto a braccia aperte, è il mio saluto d’accoglienza, siamo tutti uno.
Autore e interprete prolifico, 40 album in carriera, gli ultimi due nel 2024, uno è Napule’s Power, l’altro appena è Corte del Remer
Napoli sono io. Napule’s Power è dedicato al movimento musicale creato da Renato Marengo nel 1970, proprio lui ha voluto che io interpretassi i brani degli artisti di quel periodo, tutti amici, da Gragnaniello, ad Edoardo Bennato, ad Avitabile a James Senese. Il disco Corte del Remer è un omaggio delicato per Venezia, per i luoghi dove spendo parte della mia vita.
Torniamo a Roma, è una città jazz o rock?
Roma è Roma. Impossibile dire altro. Ha un substrato che non è non di stampo jazzistico, è una città che da caput mundi ha lei contaminato ed influenzato il mondo intero. In musica è rimasta fedele ai suoi stornelli, ad una melodia popolare, il “territorio” romano non ha subito musicalmente influenze. La mia musica piace ai romani, suoneremo da “Chi tene o mare” di Pino Daniele a “Tammurriata nera” della Nuova Compagnia di Canto Popolare. Ogni brano è qualcos’altro, filtrato attraverso il jazz napoletano che ho creato e molto apprezzato dagli stessi autori.