Uno SPECIALE di Marco Impiglia alla vigilia di Italia Austria. Il ritorno al passato ai ricordi del 1934
La partita più importante tra l’Italia e l’Austria è stata la semifinale di Coppa del Mondo del 1934, disputata a Milano. Loro erano il “Wunderteam”, i più forti d’Europa insieme all’Inghilterra, che al Mondiale non aveva voluto partecipare.
Il coach Hugo Meisl, un “mago” del football pionieristico, alla vigilia disse di temere solo la rudezza del gioco italiano, nella speranza che l’arbitro designato, lo svedese Ivan Eklind, non l’avrebbe tollerata.
Il match, da molti opinionisti considerato la finale anticipata del torneo, rullò il 3 giugno in uno stadio San Siro pieno all’85%.
Dal punto di vista degli italiani, Milano era la città ideale per battere gli austriaci, che la stampa francese dava favoriti. Per più di un secolo, Milano era stata governata dall’Austria felix, con la Radetzky March eseguita innumerevoli volte nella piazza del duomo.
Ora, una vittoria sul Wunderteam era l’opportunità per gustarsi una rivincita; o almeno così pareva alla stampa locale. E poi, l’Impero austro-ungarico era stato il nostro grande nemico nella terribile Guerra ’15-18.
Su un terreno reso pesante dalla pioggia, gli Azzurri disputarono una partita di commovente slancio agonistico, superando con la sola forza di volontà le fatiche dei 220 minuti
che erano stati loro necessari per piegare la Spagna del portiere Zamora in un doppio, epico scontro nei quarti al “Berta” di Firenze. Eklind li accompagnò nell’impresa.
Il fischietto di Stoccolma si dimostrò accomodante nella prima parte, lasciando giocare duro e consentendo allo juventino Luis Monti di martoriare Matthias Sindelar, l’estroso ma fragile attaccante austriaco.
Sindelar al termine sarebbe stato condotto all’ospedale e lì avrebbe conosciuto l’infermiera ebrea Camilla Castagnola, assieme alla quale si sarebbe suicidato nel 1939 in odio al razzismo nazista.
Il gol decisivo giunse alla metà del primo tempo e fu un capolavoro di scaltrezza: il portiere Platzer non trattenne un tiro del bolognese Angiolino Schiavio, scattato in sospetto off-side.
Gli piombarono addosso in sequenza tre avversari. Il primo fu l’agile centravanti Giuseppe Meazza, detto ‘il Balilla’, divo dell’Inter, che lo caricò impedendogli di recuperare il pallone.
La sfera rotolò lenta sul palo per essere infine sospinta in porta da Enrique Guaita, il “Corsaro Nero” della Roma, in contemporanea con un altro oriundo argentino: Atilio José Demaria, anche lui dell’Ambrosiana-Inter.
Il giornale svizzero Zurcher Sport titolò: «Furia contro Platzer», affermando che una rete confusa e viziata da falli aveva deciso tutto. Meisl disse al quotidiano Il Littoriale che il gol era stato originato da un errore di Platzer, suscitando così le proteste della stampa viennese.
In effetti, almeno due ombre offuscano ancora oggi quella sfida, pure a distanza di tanti anni.
La prima ombra è relativa a un telegramma giunto dal consolato austriaco ai giocatori del Wunderteam il giorno avanti lo scontro, per ordinare loro di non sforzarsi troppo contro l’Italia fascista, in quanto politicamente amica dell’Austria.
Si sapeva che almeno due giocatori erano antifascisti: la stella Sindelar e il terzino sinistro Karl Seszta. E non si scordava che la FIGC aveva regalato centomila scellini ai club viennesi per far sì che i loro calciatori interrompessero il campionato nazionale e prendessero parte al Mondiale.
La seconda ombra è stata sollevata da uno dei migliori realizzatori nella storia del football europeo, il centrocampista Josef Bican. Questi, in varie interviste concesse nel dopoguerra, ha sempre sottolineato il ruolo decisivo svolto da Eklind.
In campo, Eklind aveva agito in modo favorevole ai padroni di casa, fino ad arrivare all’eccesso d’intercettare di testa un suo passaggio all’ala destra Zishek.
Tale movimento dell’arbitro, così bizzarro, venne notato dai giornalisti austriaci, ma essi scrissero d’una palla che stava finendo innocua in fallo laterale. Bican andò oltre con le sue tardive rivelazioni: «Before we played with Italy, Mussolini had a meeting with the Swedish referee and according to our coach, Hugo Meisl, he knew that the referee had been bribed and worked in favour of the Italians». Secondo Bican, tutti sapevano che solo l’Italia poteva vincere la Coupe Jules Rimet. Eklind aveva cenato e bevuto vino col duce la sera prima del match e quindi eseguito le sue direttive!
Vi posso assicurare che queste ultime sono pure fandonie; del tipo che si dicono quando ci si va in puzza. Bican, in realtà, aveva preso alla lettera lo sfogo di Meisl negli spogliatoi, quando questi, deluso e stizzito dall’operato di Eklind, aveva dapprima rifiutato di stringere la mano all’amico Vittorio Pozzo, e poi urlato ai suoi giocatori che quella partita non la si poteva in alcun modo vincere, per il semplice motivo che lo scandinavo era stato la longa manus di Benito Mussolini.
Meisl, un omone nato in Moravia da stirpe ebrea, era un tecnico e dirigente famoso, poliglotta, ex arbitro, ma anche un noto collerico: pochi lo sopportavano nella Federazione austriaca.
Eliminato il Wunderteam dagli Azzurri, la stampa viennese l’accusò di avere trascurato i doveri di Verbandskapitӓn per stare appresso ai suoi articoli di giornalista e alle questioni FIFA della commissione arbitrale.
Sul match Italia-Austria 1934, una decina di anni fa relazionai a Zurigo, nella sede della FIFA davanti al presidente Josef Blatter. Quindi ci ho scritto sopra un racconto di fantasia, che qui vi propongo.
Si intitola “il raggio color berillio”. Spero vi piaccia, nonostante contenga molte frasi in dialetto milanese. Anche perché sabato, allo stadio di Wembley, i “marziani” per gli austriaci questa volta saremo noi…
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Era una mattina d’agosto del 1994, subito dopo i Mondiali negli USA, quelli dei rigori in finale col Brasile e di “codino” Baggio. Col nonno Sigismondo, stavo camminando su per una salita nelle malghe di Fane, ad un tiro di sasso dal confine con l’Austria. Non lontane, si profilavano montagne già austriache, e candide stradine battute in passato dai contrabbandieri. Spiluccando lamponi sul bordo del sentiero, mio nonno ruppe il silenzio che durava dal piazzale dove avevamo parcheggiato l’auto. Iniziò un dialogo:
- Sai che la prima partita che ho visto è stata a un Mondiale?
- Sì?, e quando?
- Nel 1934, il 3 giugno del 1934.
- Urca! E che partita era?
- Italia-Austria, la semifinale del torneo che poi vincemmo. Non avevamo Roby Baggio, allora, ma c’era Giuseppe Meazza, che era pure meglio.
Il nonno mi fissò un attimo con le sue iridi d’un azzurro brillante, un po’ da matto (lui era di Milano e la nonna materna di Mutters, un paesino sopra Innsbruck). Valutò che la cosa m’interessava un frego e continuò, riprendendo il passo-spinta che ci doveva portare al rifugio Brixner, a quota mille e ottocento:
- Giocarono al vecchio San Siro; non quello d’adesso, con gli anelli sovrapposti, ma il San Siro picul e quader, prima degli ampliamenti. Compivo quel giorno dieci anni, e per questo mio padre decise di condurmi con sé alla grande sfida che in città tutti attendevano. Devi capire: gli austriaci erano il Wunderteam, la squadra-meraviglia, neanche gli inglesi l’avevano battuti mai, e tre mesi prima ci avevano mollato quattro papine a Torino. Erano loro i favoriti del Mondiale. Ci mettemmo dabasso, giusto dietro la porta austriaca. La difendeva il Pietro Platzer, un sciur purter. Aveva piovuto tutta la notte e anche a la mattina, il campo si presentava una palta, con larghe pozzanghere, ma questo non c’infastidiva, anzi, avvantaggiava la squadra più grintosa e atletica, cioè noi. Alle cinque del pomeriggio l’arbitro, un tòmm de la Svezia, fischiò l’avvio. Mi pensavi: chicchirichì fa il galletto, e di noi che cosa sarà…
I bianchi – bauscioni de l’ostia! – impostarono la direzione tranquilli e spocchiosi, col loro gioco che ricordava il valzer: passaggi precisi, finte, ghirigori, svenimenti se appena appena arrivava il tackle. Noi si rispondeva con spinte e calcioni, a la baionetta propi. Pure se non avevamo i brochett, là davanti. Oltre al centrattacco dell’Inter, il Meassa, c’erano Orsi, Guaita e Demaria, gente non da ridere. Ma il più forte in campo gh’aveva un nome foresto, Matthias Sindelar se ciamava, e devi pronunciarla la S come fosse romagnola: Scindelar. Siccome l’era magher un’aringa, i tifosi lo conoscevano col nomignolo di “cartavelina”. Ma el pizzà la lüs, quel demòni! Monti, il centromediano, lo francobollò da subito. Sott a cu biott, el ghigna, e lo picchiò talmente duro, el poer crist, ona pulpèta propi, che a la fine quelo partì vuluntario per l’ospedal. Lì conobbe un’infermiera della quale se incantà, e poi tutt’e due morirono qualche tempo dopo a Vienna, perché coi nazisti in casa c’era da sperare minga; ma questa è un’altra storia, nani; troppo brutta per cuntartela, a ti che conti solo undici primavere.
- Ma faccio molti gol – aggiunsi indispettito, cercando di pizzicargli le gambe lunghe e bianche completamente prive di peli, mentre mi spettinava i capelli biondi col manone.
- Sì, sei un cannoniere ti – disse convinto –, come il balilla E riattaccò:
- Veniamo al dunque, tigher, perché voglio dirti del gol. Che fu speciale. Molto speciale. Specialissimo.
Giunse alla metà del primo tempo. Platzer si lasciò sfuggire indrè la bala su un tiro di Angiolino Schiavio, l’ala del Bologna. Provò a recuperare ma ghe s’imbrujàa le brasc con le gambe, e in un amen gli piombò addosso il Pepp Meassa. Che rüsàda! Lo scontro li gettò per le terre entrambi, il Pepin propi denter la rede. La bala, intanto, l’è caminà quiet come una culumbina verso il montante di destra.
Trücà el paletto e tornò indrè beffarda, un brisinin propi, per cui ebbero tempo d’avventarsi alter dü, il Guaita e il Demaria. Il Guaita la sfiorò col fianco e attribuirono a lu el punto. I crück protestarono, piangina, le brasc al ciel che non ci volevano credere a la ciulada. Perché a pensà mal se fà mal, ma se sbaglia mai. E infatti, el polin là… il Benito Mussolini, il duce de l’Italia del fassismo, el padrun de la melunera, el Berlusca de quei giorni insomma, s’era grippàa i arbitri, t’è capì? E così la rete venne convalidata. I nostri pronti al kyrieleison.
Il nonno si fermò a una svolta, perché aveva adocchiata un’altra bella pianta di frutti corallini. “Uh, fambrös!”, sbottò meravigliato, con quella O strana, camaleontica, che tirava fuori lui. Mangiucchiò cinque o sei lamponi, sporcandosi le dita tutte di rosso; tanto la nonna era lontana e poteva fare quello che voleva. Mormorò “Grüβ Gott” a due austriaci che ci stavano superando. Quelli risposero qualcosa in tedesco, quasi sorpresi. Infine, mi offerse un lampone e io gli spiattellai, ruvido e cinico (sono romano), tutto il mio disincanto per la storiella:
- ‘A nonno, ma che c’è de specialissimo in questo gol del cavolo?
- Il raggio color berillio.
- Che?
- Ti spiego. Lo vidi come vedo adesso la marmotta lassù, quella che s’agita e fischia per paura del nostro cane. Sopra la porta austriaca, sotto le nivul basse, apparve un fasolone verde di venti metri almeno. Una nave spaziale. L’era silenziosa come un lader ne la cassina. Un prodigio tale che rimasi a bocca aperta. Da un lato ghe partì un raggio grigio fosforescente che, come la lingua d’un formichiere, si sciroppò la bala nell’istante in cui il Platzer la stava per far sua.
- Cheee? Vuoi dire che i marziani se so’ fregati er pallone?!
- Non esattamente. Solo lo sostituirono: incuriositi che lo volevano tutti, i catà sü, rimpiazzandolo con un facsimile che elaborarono lì per lì in un millisecondo. Pin pin cavalin.
- E nessuno se n’è accorto?
- Nessuno tranne me, che me son trovàa là. Ero l’unico nani de des an ne lo stadio, per cui el cervéll me lavurava su lunghes d’onda YZ, cumpagne a quele dei visitatori d’alter mond. E ti dirò di più: il colpetto finale l’inferse propi el raggio traente, per cui possiamo concludere che il gol lo marcarono i marziani.
- Urchissima, nonno! Questo sì che è specialissimo…
- Che t’aveva dito? Ma non andare a spifferarlo in giro, balòss, che poi finisce che ci tolgono il Mondiale per errore tecnico dell’arbitro; e già basta che abbiamo perso questo in America. Giuri, tigher?
- Sulla testa di Lola, capo! (Il cane, un bavarese nero al guinzaglio, mi guardò speranzoso senza capire il rischio).
Per dare nerbo alla promessa, chiusi il gesto del sacro bacio a indici incrociati. Poi tirai su col naso (il mio orologio Casio da polso, un piccolo mostro fornito di bussola, barometro, altimetro e termometro, segnalava dodici gradi centigradi), diedi uno scossa allo zainetto di cuoio anni trenta, originale del nonno, per assestarmelo meglio sulla schiena e levai gli occhi al cielo turchese: il Brixner torreggiava a mancina su uno sperone, contornato da tirolesi in brache verde pallido con relative bretelle e i faccioni rossi.
Bevevano birra da boccali giganteschi, impancati a lunghe tavole di legno d’abete. Cantavano beati, ignari di tutto.