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La rivincita di Tebogo e i “bicipiti troppo duri” di Jacobs

foto: Riccardo Piccioli

Golden Gala Pietro Mennea, Monte Mario arrivi. Da anni non vedevo così da vicino l’atletica all’Olimpico. Sempre in tribuna stampa, messa troppo in alto per impressionarti della velocità e degli appoggi felpati di Letsile Tebogo. Il 9.87 post olimpico è una cartina di tornasole sulla sua condizione e il suo talento.

Ai Giochi di Parigi: oro nei 200, argento nella staffetta 4×400 grazie a un’ultima frazione sotto i 44”, sesto nei 100 in 9.86. Chi lo precedette di un centesimo, grazie a una partenza ai limiti umani con 114 millesimi di reazione, preferisce togliere il gas dieci metri prima del colpo di reni: “bicipiti troppo duri”.

Eppure Marcell Jacobs continua con i proclami sull’ottimo lavoro con il suo coach americano, un work in progress che avrebbe dato i suoi frutti anche nella Diamond League, finalmente corsa dal campione olimpico di Tokyo.

Pur nella stucchevole e puntuale “sceneggiata” dopo una sconfitta, nell’evo in cui senti dire da tutti gli attori in scena che la sconfitta la devi prendere come una vittoria, o per lo meno come una crescita, Gianmarco Tamberi si piazza quindici metri dopo la nona corsia distrutto da dolore. Con il cappellino in testa non accenna ad alzarsi prima dello sparo dei 100. Arriverà una steward a dirgli che c’è un altro numero per lo spettacolo del Golden Gala, l’ultimo, il più atteso: come sempre i 100 metri ti tengono col fiato sospeso prima dello sparo. Tebogo esce dopo i 50, esprime il suo lanciato e vince con l’ottimo 9.87, davanti a Coleman e Kerley, 9.92 e 9.95, con vento quasi nullo.

Jacobs chiude ultimo in 10.20, l’aver alzato bandiera bianca prima del traguardo non gli fa onore, sono oramai troppe le scuse per tirarsi indietro. Meglio il pianterello di Tamberi, anche se non c’entrava niente, non c’entra mai niente, soprattutto per un campione olimpico. Almeno in pedana ci ha provato, e non si è sottratto.