Come avrebbero vissuto il derby Sordi e Pasolini? Ce lo racconta Marco Impiglia
Oddio che emozione! Ora vi racconto di una “stracittadina” giocata nell’ottobre del 1957, presenti sugli spalti due monumenti della Roma di un certo tipo: quella di Cinecittà e l’altra delle borgate di periferia. Non ve la sto a tirare per la lunga: li faccio parlare, li faccio. Cominciamo con “Albertone”, naturalmente. L’intervista rilasciata al quotidiano L’Unità, il giorno dopo il secco 3 a 0 dei giallorossi, gol di Lojodice, Da Costa, Ghiggia, una Roma con gli assi del Sudamerica.
(Risponde all’astuta domanda “Come ha visto la partita?”) – Come l’ho vista? Come un tifoso giallo-rosso, l’ho vista. Io sono nato nel cuore di Trastevere, dalle parti di San Cosimato, e abito nel cuore di Ponte.
Che devo da esse, laziale?! Quand’ero ragazzino, la domenica m’arrampicavo con gli amici su per il monte Testaccio, e da lassù mi vedevo mezzo campo e una porta; ma credo che gli strilli e i “forza Roma!” si sentivano pure in tribuna.
Quando la Lazio giocava a casa sua, fori de porta, e chi se moveva? Restavamo dalle parti nostre, a Roma, aspettando di vedere cosa aveva fatto la Roma su per il nord, e ingannavamo l’attesa, divorati dall’ansia, con i circuiti di palline o alla nizza, o a buzzico.
Sì, quando la Roma giocava a Testaccio erano rare le volte che riuscivamo a metterci a sedere sugli scalini di legno, dipinti di giallo e di rosso, in mezzo ai grandi. Ieri, quando sono tornato a casa, una popolana di via dei Pettinari, che è la strada dove abito, m’ha detto tutta contenta: «L’hai fatta vince la Roma, eh Albé?».
Oddio, non è stato merito mio, ma al secondo tempo anch’io ho strillato: “E nun ce vonno sta!”. Ed era appunto il momento in cui si vedevano solo striscioni giallorossi sulle scalinate, e le rare grida ciociare che avevamo sentito all’inizio della partita, prima s’erano infiacchite, e poi avevano lasciato completamente il posto ai rauchi vocioni trasteverini e ponticiani, al gran coro “V’avemo ‘mbriacato!” che mi ricorda l’infanzia a monte Testaccio, con la sua testina pelata.
È stata una bella soddisfazione, e per me una rivincita un po’ speciale, non sulla Lazio, ma sua mia moglie.
- Sua moglie? Se non è sposato!
Mi spiego. Ho appena finito di girare un film, “Il marito”, dove mi capita di non poter andare a vedere Roma-Lazio, io romanista per la pelle, perché mia moglie esige che io rimanga in casa a sentire un concertino d’archi; archi che, come se non bastasse, si mettono a strepitare assordanti proprio mentre Carosio, che io clandestinamente ascolto nascondendo la radiolina sotto il cuscino della poltrona, sta raccontando che Da Costa, scartati tutti i laziali, va in gol.
Il personaggio del film c’è rimasto fregato, ma io ieri l’ho vendicato. A Roma-Lazio non mi piace mancare: è troppo bello lo spettacolo del pubblico, troppo entusiasmante l’antagonismo tra Orazi e Curiazi, troppo grande la gioia quando la Roma ottiene quella che per noialtri tifosi è di gran lunga la vittoria più ambita, perché io possa mancare. (…)
Ecco, mi spiace solo una cosa, alla quale del resto è dovuta la mia frequente assenza dalle partite della Roma.
Mi dispiace l’orario. Non va bene, almeno per noi romani, andare allo stadio a stomaco pieno dopo una magnata domenicale di quelle che si usano nelle nostre case. Te devi risparmià negli strilli, se no rischi de rigettà tutto.
Non va bene. Secondo me, a Roma le partite si dovrebbero giocare a mezzogiorno. Dice: ma allora la gente non va alla Messa. E non si potrebbe fare una bella, suggestiva Messa al campo, prima della partita? Pensate la differenza: dopo una partita come quella di ieri…
O cappa, o cappa, caro Albertone, non te lo potevi immaginare ma, domenica prossima, 20 marzo 2022, Roma-Lazio si gioca alle sei del pomeriggio. A maccheroni digeriti. Contento?
E ora passiamo al “Paso”. Ho appena finito (anch’io, modestamente, ho appena finito), di scrivere un lungo articolo su PPP e il suo rapporto con lo sport e il mondo del calcio.
Lavoro eseguito per l’amico Vincenzo Pennone, un radicale siciliano, degnissima persona, che manda in giro sulla rete una rivista impegnata che si chiama Il Mondo.
Credo che sappiate che Pasolini, nato in Friuli ma cresciuto a Bologna ai tempi di Schiavio e Biavati, era un fervente tifoso del Bologna. Tuttavia, quando scese a vivere a Roma, nel 1950, prima al Portico d’Ottavia e poi nel suburbio (il Trullo, Tor Pignattara, Monteverde) dove trovava in abbondanza materiale per i suoi romanzi (Ragazzi di vita, Una vita violenta), strinse amicizia con Sergio
Citti e quello, romanista sfegatato, cominciò a portarlo agli incontri della Roma. [7] PPP ne approfittava per studiare i suoi soggetti, in tasca un taccuino sul quale, similmente a Sarri, si appuntava tutto: cioè gli improperi coloratissimi che si alzavano dagli spalti all’indirizzo dell’arbitro e degli avversari, oppure a incoraggiamento dei “lupi” in lotta.
Ad esempio, in uno dei romanzi suddetti fa dire a un protagonista, mentre gioca al calcio balilla in un baretto: «Forza, a Trerè!». Alias Armando Tre Re, che era un difensore fiorentino che militò nella AS Roma dal 1949 al 1954, e col quale parlai pure al telefono, ai tempi in cui preparavo la storia del tifo giallorosso.
Potrei andare avanti per un bel pezzo sul “Paso”. Sul suo idillio lungo una vita per il calcio, che praticò, da puro “amatore”, fino alla fine: fino a quando morì ammazzato, proprio.
Qui mi limito ad aggiungere che Citti, Ninetto Davoli e gli altri amici, di casa a Cinecittà e “ultrà” all’Olimpico, posero sul suo feretro una bandiera della “Maggica”. E così, PPP fece il suo ultimo viaggio da “romanista” onorario, per aver raccontato le storie di una certa Roma. La Roma dei derelitti e degli emarginati.
Stop. Vi saluto. Forza Roma e Forza Lazio. Ora parla (scrive) lui, il Poeta dal volto scavato, l’anima sofferente.
Il Gesù del Novecento che non amava Maddalena bensì Pietro. Sono brani estratti dall’articolo «Er morto puzzerà tutta la settimana», da L’Unità del 28 ottobre 1957:
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Romanista non sono, e neanche laziale. «Sò der Bologna». Lascio immaginare l’animo con cui scrivo queste righe. Penso ai tifosi bolognesi, miei correligionari. La cosa è tragica: lo vedo qui, nelle facce dei laziali. Tutti Maramaldi i romanisti, tutto Ferrucci i laziali. Non si può non avere simpatia per i vinti: i vittoriosi me lo concederanno…
Lo spettacolo il solito. I colori più belli erano quelli di Roma: l’azzurro del cielo di ottobre, e il verde dei pini in fratta sulle pendici classiche. Perché quanto allo sport niente azzurro, niente bianco, niente rosso e niente giallo. Molto grigio, invece, il grigio della noia, della paura, dell’incertezza. Beh, come sempre!
Questi giovanotti che giocano ogni domenica sono bombardati da traumi di ogni genere: razionalistici da parte dei critici, passionali da parte della folla, un misto (tanto per poter tirare avanti) da parte degli allenatori.
Comunque domenica per domenica vanno lì sul campo a dimostrare che il gioco è comechessia, un concetto.
Un concetto umano, storico, terrestre: esposto quindi a ogni rischio e a ogni negazione e, naturalmente, agli improvvisi empiti «inventivi» (com’è stato oggi per l’ultimo quarto d’ora della Roma). Il contrario del tifo, che è invece una astrazione, una costellazione fissa, un dogma. Io, per conto mio, sopporto con gran pena il tifo di tipo, diciamo, napoletano (s’intende che tutti gli italiani sono un po’ napoletani: bolognesi compresi). Per dirla con Benedetto Croce, il tifo è uno «pseudo-concetto». Fonte quindi di errori, aberrazioni e angosce. (…)
Per fortuna, a Roma, i tifosi di questo tipo non sono molto numerosi: le uniche «maschere» che si vedono in giro, praticamente, sono dei giovincelli con in testa il cappello di carta giallo-rossa o bianco-azzurra, le camicie fuori dei calzoni, la faccetta malandrina particolarmente accesa e, qualche volta, una bandiera della «squadra del cuore». Poi cantano una cantilena molto infantile: «Li avemo imbottigliati, ooh, oh, ooh, oh. E nun ce vonno sta!».
Fatto sta che Roma è veramente una grande città: la identificazione del tifoso con la squadra non sublima sentimenti ristretti, provinciali e municipali. E poi nel romano c’è sempre quella dose di scetticismo e distacco che lo preservano dal ridicolo. Nella propria squadra egli non esalta glorie cittadine, meriti sportivi e altre cose noiose di questo genere: egli esalta la propria «dritteria». E un «dritto» è un «dritto». (…)
Ciò che più fa soffrire o gioire il romano alla sconfitta o alla vittoria della sua squadra è l’idea dei discorsi che dovrà fare al bar o dal barbiere. Certo! Un «dritto» può forse perdere? E se vince, può forse non fare dell’ironia – magnanima – sui vinti? Guardate il «Mazzone», per esempio, che avendo visto annunciato su “L’Unità” questo mio articolo, mi ha subito telefonato, da Torpignattara: «A Pa’, nun t’azzardà a dì male de la Roma eh!». Poi l’ho visto, coi suoi amici er «Patata» e «Giancarlo», sotto l’obelisco di Mussolini: già passione e gioia erano scontate. Egli ha definito e sistemato subito tutto con due parole, non appena fummo in vista di San Pietro: «Scrivi nell’articolo – ha detto – che er morto ancora puzzava, come semo usciti dallo stadio. E puzzerà tutta la settimana!».