Marco Impiglia ci racconta, prima della partita della Nazionale Italiana contro la Spagna di un precedente del 1934 – Amarcord – Sfida a Zamora
Ricordo mio padre, un classe 1927 e tra l’altro di Jesi come il Mancio, che alle partite della “Lazietta”, in Serie B negli anni sessanta, quando un portiere avversario eseguiva un intervento spettacolare, esclamava, con un misto di stizza e ammirazione: “Ha fatto il Zamora!” In questa sfida europea alla sorella Spagna non ci troveremo davanti Ricardo Zamora, ché Unai Simon, il numero uno dell’Athletic Bilbao, se non sta più che attento si fa gol da solo. Ma ai Mondiali del 1934, quelli che Benito Mussolini aveva ordinato di vincere ad ogni costo perché li giocavamo in casa, sembrava proprio che fosse il catalano l’ostacolo più grande tra noi e la Coppa Rimet. E con lui la squadra di calcio spagnola, affamata di successi, caliente e imprevedibile, un gradino sotto l’Italia nel ranking ma, anche per questo motivo, desiderosissima di scavalcarla. Ci lanciarono il guanto di sfida, anzi un fazzoletto bianco che cadde in una plaza de toros che si chiamava “Berta” di Firenze: il “Franchi” di oggi nel quartiere Campo di Marte. E fu una lotta fantastica. Un duello che andò avanti per ore, fino allo stremo delle forze, senza esclusione di colpi. Quindi le “furias rojas” si guardarono intorno, scossero il rubro corpo setoso, sudato e completamente ricoperto di picche colorate e ferite sanguinanti, e finalmente capirono che il toro erano loro.
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Zamora era un personaggio a tutto tondo. Figlio di un medico, bello e aitante, dalla mascella quadrata. Si presentava tra i pali sicuro di sé come un torero, un Manolete che attirava magneticamente gli sguardi della folla, attenta a spiare ogni sua mossa. Eseguiva una parata speciale che aveva inventato: la “zamorana”. Difficile descriverla, era una sorta di respinta fatta con gli avambracci e i gomiti, invece che con i pugni. Spesso usciva imbattuto, l’eroe del match. Giocava nel Barcellona e con la nazionale iberica avrebbe stabilito un record di presenze che sarebbe stato battuto solo in epoca post-franchista da Iribar. Anche in Italia, Zamora (pronunciate quella Z una esse dolce, come in “super”) era un idolo delle masse. L’amante perfetto di tutte le mujeres di Spagna. Un macho con i controfiocchi. E un grande atleta.
Serio e incorruttibile? Non lo so… giudicate voi. Forse il Musso si comprò anche lui; così almeno si dice. Ma andiamo ai fatti. Attenzione che, come al solito, non vi racconterò la storiella patriottica e dolcificata alla quale, magari, siete stati abituati da anni di letture del Corriere o della Gazzetta. Questa è una storia nuova, vista dalla parte dei battuti. Costruita attraverso documenti di archivio e un’analisi della rassegna stampa ad ampio spettro, in più lingue, come usa fare lo storico dello sport quando presenta una ricerca a un pubblico internazionale composto da colleghi. Lo studio, in effetti, lo svolsi anni fa, e qui ve la ripropongo in giornalistica sintesi.
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Allora, andiamo immediatamente a chiarire che, senza alcun dubbio, l’esibizione più discussa dei nostri azzurri a quel Mondiale vinto fu il quarto di finale con la Spagna a Firenze, giocato in doppia battuta il 31 maggio e il primo di giugno. Dopo l’allenamento d’apertura con gli USA (7-1), gli uomini del selezionatore Vittorio Pozzo si trovarono ad affrontare il mito di Zamora. La squadra scese sul terreno del Berta con la formazione più classica: Combi, Monzeglio, Allemandi, Pizziolo, Monti, Castellazzi, Guaita, Meazza, Schiavio, Ferrari, Orsi. In quei giorni, ogni arbitro assegnato all’Italia veniva aspramente discusso in sede di scelta. Che cadde su Louis André Baert, un belga di 33 anni appena passato tra le file degli internazionali: un fischietto inesperto. Baert, infatti, esordì nel torneo proprio nel match che vide le due formazioni latine massacrarsi di botte. Passati in vantaggio gli ospiti alla mezzora con Luis Regueiro, un basco che militava nel Real Madrid, il gol del pareggio, realizzato dallo juventino Ferrari allo scadere del primo tempo, fu il frutto d’un evidente fallo su Zamora. L’azione si sviluppò così: punizione dalla tre quarti di Pizziolo, Zamora uscì in presa alta e incontrò il corpo di Angiolino Schiavio, in stile ariete su di lui con un’ancata. Il portiere perse il controllo della sfera e Giovanni Ferrari, la mezzala della Juve, infilò la rete sguarnita. Baert, in un primo momento diede l’impressione d’annullare, perché Zamora era stato atterrato e stava lì steso a terra, col volto nell’erba e il berretto a faccia in su verso il cielo mediceo.
Ma poi, su indicazione del guardialinee Mihaly Ivancsics (una delle giacchette nere comprate dalla FIGC secondo le mie indagini), convalidò deciso. Nel secondo tempo, al contrario, annullò per fuorigioco un gol marcato dall’ala Ramon de la Fuente, scattato verso Combi con ben quattro difensori ancora davanti a lui. Semplicemente, il piccolo basco li bruciò sullo scatto, ma Ivancsic alzò la bandierina e Baert fece il suo dovere.
C’è da aggiungere che Baert non diede anche un evidente rigore per un fallo subito da Schiavio. Finì 1-1 dopo i supplementari, e il regolamento prevedeva il replay a 24 ore di distanza.
Nel frattempo, la stampa internazionale, specie quella francese, si scatenò, aspettandosi che le previsioni d’una combine dei cugini transalpini venissero presto confermate dai fatti. Sulla questione dei giornalisti stranieri (185 i corrispondenti da 16 paesi diversi, con maggioranza francese), Mussolini aveva deciso per una via di mezzo: consentire a tutti l’accredito, anche agli inviati di testate anti-fasciste, per non dare l’impressione d’una censura preventiva.
Tuttavia, laddove s’era presentata la possibilità di scelta tra due opzioni (ad esempio, un moderato e un socialista), l’elemento pericoloso era stato scartato. La stampa spagnola, che contava su dieci inviati espressione della Seconda Repubblica, un governo democratico che aveva concesso il diritto di voto alle donne e autonomia politica ai Paesi Baschi, criticò l’arbitro belga scandalosamente parziale, il quale aveva permesso agli italiani di picchiare Zamora, aveva dato loro un gol viziato e poi invalidato un gol spagnolo per un «immaginario off-side». Il giornale El Liberal di Bilbao titolò: «Los fascistas dan cumplidas pruebas de su incultura y antideportivismo».
Alla seconda corrida non parteciparono quattro giocatori italiani e sette spagnoli, tutti per infortunio. Pesante fu l’assenza di Zamora, che all’ultimo momento valutò bene di non entrare in campo, rischiando di rovinare la sua fama con una prova non all’altezza, vista le precarie condizioni fisiche. Inoltre, gli italiani più volte gli avevano fatto saltare con manate la berretta dal capo, minacciandolo. Anni dopo, caduto il fascismo, negli ambienti della FIGC – secondo una indiscrezione di Fulvio Bernardini apparsa sul giornale L’Uomo Qualunque – sarebbe girata la voce che l’asso di Barcellona avesse quel giorno accettato «svariati biglietti da mille» per non giocare la seconda sfida.
Il primo giugno, dunque, andò in scena l’ultimo quarto in programma, con Hugo Meisl commissario controllore in tribuna: il coach austriaco stava lì per giudicare l’arbitro e perché la vincente avrebbe affrontato il Wunderteam. Ma chi era l’arbitro? Il trentacinquenne René Mercet, già utilizzato in Italia-USA. Per la terza volta, il ticinese entrava in ballo a fungere da balia agli azzurri nella Coupe du Monde. Mercet diresse all’altezza di Baert. Permise tutto ai padroni di casa e annullò due gol degli ospiti. L’inviato di Paris-Soir, Gaston Bénac, notò che Mercet, «vestito in costume da bagno», s’era «regolato come un cortigiano del Re Sole». Egli denunciò la brutalità ancora mostrata dagli italiani, e come ad un certo punto gli spagnoli, esasperati, andarono verso il pubblico fiorentino tirandosi su le maglie per far vedere le ferite sui torsi e sulle schiene.
Il prode capitano Quiconces chiese inutilmente a Mercet l’espulsione di Luis Felipe Monti, il centromediano di nascita argentina, vero orco della mediana italiana, mostrandogli un vasto ematoma al fianco destro. I nostri s’imposero 1-0 con una deviazione di testa di Giuseppe Meazza, l’interista, mentre il portiere veniva ostacolato da un altro azzurro.
Sulla “garra” incredibile che caratterizzò quel famosissimo match (in Spagna se lo ricordarono per decenni, infine paragonandolo per livello di violenza alla gomitata in area di Tassotti a Luis Enrique al Mondiale 1994) abbiamo il commento di Gianni Brera, che nel suo Storia critica del calcio italiano ha scritto al riguardo: Pozzo lascia intatta la difesa, che ha fatto sfracelli (anche ossei). In mediana vengono richiamati Ferraris IV e Bertolini, che affiancano Monti (altri inauditi sfracelli). In attacco vengono impiegati Borel II al posto di Schiavio e Demaria al posto di Ferrari. Gli spagnoli hanno sette uomini sette fuori uso e gridano allo scandalo: ma sono bravi e avvezzi a disprezzarci (cuando un nino italiano nace, le ponen un dedo en el cul: si llora es tenor, si no llora es maricon). La seconda battaglia è più furente della prima, al punto che Borel II, povero novellino, finisce per provarne qualche rimorso: “sta zitto, bocia!” lo ammoniscono gli anziani. Alla guerra come alla guerra. È in questa occasione che i francesi rilevano il grossolano sciovinismo e scrivono di Monti che è un pericolo pubblico come Dillinger. Ma vi raccomando Allemandi e Ferraris IV. Il solo gol della vittoria italiana viene segnato al 12’, quando Orsi batte il terzo angolo consecutivo in tre minuti: il sostituto di Zamora si chiama Nogues: una foto storica lo ritrae mentre disperatamente tenta di voltarsi dopo essere uscito un tantino a capocchia: Meazza si eleva molto, appoggiandosi sulle spalle di Guaita, e infila di testa: due difensori spagnoli assistono impotenti e visibilmente disgustati.
In tutta la faccenda, Zamora si disimpegnò in modo ambiguo: la volta dopo andò a vedere allo stadio San Siro la semifinale Italia-Austria ed incassò l’applauso ammirato dei tifosi milanesi. Quindi tornò in Spagna dove l’accolsero come uno sfortunato eroe. Nessuno valutò criticamente il contraddittorio fatto che ‘El Divino’ avesse dato forfait per quell’entrata di Schiavio dopo la quale aveva parato magnificamente. Zamora disse ai suoi compatrioti: «Ci hanno impedito di vincere… Firenze sembrava l’inferno di Dante… abbiamo giocato come diavoli opposti a diavoli ma avevamo contro anche l’arbitro».
La prensa fu compatta nella polemica dopo il secondo incontro. Il quotidiano politico El Liberal definì il doppio ingaggio «guerra italo-spagnola» e terminò con un «Viva Matteotti!»
Il monarchico e madrileno Informaciones pubblicò un articolo di fondo volto ad avvalorare la tesi che l’atteggiamento iper-emotivo della folla italica denotava «una diminuzione del livello morale e civile della razza». Secondo l’ambasciatore a Madrid, il barone napoletano Raffaele Guariglia, l’ira degli spagnoli era una conferma della «malattia nazionale» di cui essi soffrivano: «l’invidia verso l’Italia fascista concentratasi negli ultimi anni».
In una lettera successiva a Mussolini del 23 giugno, Guariglia sarebbe giunto ad appaiare la sfida al pallone e la visita di Hitler a Venezia come due elementi che, in poche settimane, avevano disfatto il suo lavoro di mesi. Duro il giudizio: «La partita di calcio Italia-Spagna è diventata una battaglia politica, se non militare; i componenti della squadra spagnola sono assurti agli onori di eroi nazionali, ricevuti dal Presidente della Repubblica, decorati per i loro atti di valore, e questo paese, che si dedica da tanto tempo al più avanzato internazionalismo sociale, ha ritrovato per l’occasione i più xenofobi accenti del suo inveterato, tenace e presuntuoso nazionalismo».
Non esagerava, il numero uno della diplomazia italiana in Spagna. Eccitati dalle cronache al calor bianco dello speaker della Union Radio, Carlos Fuente Peralba, molti spagnoli avevano mandato sdegnate lettere di protesta a Roma, indirizzate personalmente al duce del fascismo.
In generale, definendolo «bandido» e lamentando che permettesse simili infamie nel suo paese. Queste lettere stanno depositate in archivio, solo io le ho consultate e, per il resto, tutta questa brutta storia di corruzione e unfair-play è stata dimenticata.
A parte le testimonianze raccolte negli anni settanta da Brera sul pallido ‘Farfallino’, spaventato dalle entrate assassine di Attilio Ferraris e Luisito Monti.
E Mercet? L’allegro arbitro se ne tornò a Lugano con una Fiat Balilla nuova di zecca e non si preoccupò delle critiche che gli piovvero addosso dai giornali, specialmente quelli di lingua francese. La Federcalcio svizzera lo sospese di lì a poche settimane. Non diresse più ad alti livelli: il Byron Moreno dei Mondiali 1934.