Note storiche, sociologiche, filosofiche e ”psichiatriche” sui sostenitori della AS Roma e della SS Lazio. L’analisi originale di Marco Impiglia.
2. IL TIFO IN ERA FASCISTA (1927-1943)
Nella capitale dell’Italia, una città di oltre tre milioni di abitanti, il pallone è uno degli argomenti quotidianamente più discussi. Credo sia il primo “topic” per la fetta maschile, seguito a una certa distanza dalle questioni politiche e da quelle sulla salute. È dagli anni trenta dello scorso secolo che il calcio è l’argomento più amato nelle chiacchiere sul posto di lavoro, in strada e nei locali pubblici; ad esempio nei bar, in trattoria o dal barbiere, e poi alla radio, sui giornali e alla televisione, infine sul web. Lo è diventato quando è nata la Associazione Sportiva Roma nel 1927. Bella coincidenza, no?
Nella scorsa puntata ho parlato della nascita del tifo ai tempi della Podistica Lazio. Le prime “folle tifose” alla Rondinella e allo Stadio Nazionale. L’infanzia del tifo calcistico capitolino. Ora seguiamo la sua adolescenza, che si consumò parallelamente alla parabola della dittatura di Benito Mussolini.
Potrei dire che il tifo giallorosso nacque a Campo Testaccio, la mitica tana dei lupi, ma non è così che andarono le cose. Il mio amico poeta Fernando Acitelli si adirerebbe alquanto. Perché il primo tifo romanista entrò in azione al Velodromo Appio, dove oggi è rimasta solo la targa di una via che lo ricorda. Più a sud dell’Ostiense, dunque. Un “sudismo” romanista subito presente, che andava a contrapporsi alla “nordica” Società Sportiva Lazio. Si vide presto che anche i tifosi dei due club erano diversi fra loro. La Lazio godeva delle tradizionali simpatie della borghesia medio-alta. Gente, come si diceva all’epoca, “con la puzza sotto il naso”. Il “buriname” dei paesi limitrofi, non diciamo pievi lontane come Tivoli o Viterbo, neppure si sognava di partire in treno la domenica per sostenere una compagine di football di nome “Lazio”. La fazione tifosa della SSL aveva avuto il modo e il tempo di divenire omogenea. La AS Roma possedette invece, fin dal suo vulcanico sorgere, due anime lapilliche fuse in una: la prima scaturiva dall’affetto incondizionato del popolo, l’altra dal rispetto di una élite che non si riconosceva nei colori “foresti” della SS Lazio; società che aveva il vizio d’origine di essere sorta dalla passione pioniera per lo sport degli immigrati scesi dal nord un paio di generazioni prima. Nella sostanza, l’ASR raccolse le tifoserie dell’Alba e della Fortitudo, che superavano di gran lunga il numero dei supporter laziali.
Accadde così che, attorno al vessillo della Lupa, si riunirono e collegarono tra loro, nella stagione d’esordio all’Appio nell’Anno VI E.F., romani veri e genti di culture e tradizioni diverse: i romani con i padri sudditi del papa re e quei protagonisti dell’immigrazione interna che, nella loro salita dal meridione, il regime fermò alle porte della città realizzando i primi quartieri dormitorio. Dal 1920 al 1940, la città passò infatti da 600.000 a 1.200.000 abitanti, dei quali la metà stavano nel nucleo dei ventidue rioni e l’altra metà nei quartieri della cinta esterna, in continua espansione. La nascita di una società sportiva che aveva i colori giusti e il nome giusto suscitò il fenomeno che – già nel mio libro del 1996 dedicato a Campo Testaccio e che tanto piacque a Donna Flora Viola – definii “allupamento”. Processo che coinvolse i rioni del centro e aree periferiche come la Garbatella, San Lorenzo, il Tiburtino e il Prenestino, l’Ostiense e le tante borgate a macchia di leopardo sparse a sud-est. E se il Velodromo Appio fu il crogiuolo, il nuovo stadio di proprietà dell’ASR, l’accogliente e familiare Campo Testaccio, fu il calderone dove tali fermenti e passioni “municipali” bollirono e addensarono.
Il temperamento sanguigno degli abitanti di Testaccio, rione operaio, si trasferì alla squadra, composta in maggioranza da “romani de Roma”. L’ASR perse quel velo di camicia nera dovuto alla sua nascita, in quanto di Testaccio ogni cosa si poteva dire meno che fosse fascista; anzi, la vena socialista del riottoso quartiere era di antica data e non del tutto sopita. Tutto ciò accadeva sotto il cielo dell’Urbe mentre il calcio acquisiva le grandi folle da stadio e si apprestava a divenire uno sport veramente nazionale, appaiando il ciclismo. La Lazio, insomma, aveva atteso sulla piazzola a lungo, ma quando era partito l’autobus della passione popolare c’era salita su la Roma.
Mi pare di avervi detto che nel 1925 la Lazio aveva 4.000 soci iscritti e paganti regolare retta. Ma non erano calciofili. Si trattava soprattutto di famiglie escursioniste che si interessavano di teatro, musica, assistenza sociale, conferenze di professori. La sezione di scherma era la meglio attrezzata. Un po’ di bocce, il gioco del tamburello, un pizzico di nuoto e di atletica e il tiro con l’arco. La AS Roma, nel momento in cui si trasferì al Testaccio e il presidente finanziere di stirpe ebraica (i più romani sono loro, gravitanti al Portico d’Ottavia da duemila anni…) Renato Sacerdoti saldò la società ai suoi sostenitori promuovendo banchetti all’aperto, arrivò a contare 1.200 soci, distinti in “ordinari”, “benemeriti” e “vitalizi”. La AS Roma in pochi mesi di attività superò di botto ogni polisportiva, nuova o vecchia che fosse, comprese le blasonate Tevere Remo, Tiro a Volo e Ginnastica Roma.
Il primo scontro tra le due rivali, lo sapete, avvenne al Cinodromo Rondinella l’8 dicembre del 1929. Esso chiarì come stava la faccenda. I nove decimi dell’impianto furono occupati dai sostenitori romanisti. Forse, in quella specifica occasione, il timore di risse tenne lontana la tifoseria laziale. I giornali montarono la sfida un po’ troppo, fornendo resoconti millimetrici dei “ritiri” cui si stavano sottoponendo i giocatori. I dirigenti biancocelesti portarono i loro campioni ai Castelli, al fine di non farli condizionare dall’atmosfera caldissima che si respirava in città. Quelli romanisti risposero: “Siamo tranquilli, i nostri ragazzi sono pronti: la città è con loro!” Sarebbe azzardato affermare che, su nove tifosi di football a Roma, dieci su dieci tifosi di football a Roma, nove fossero di fede giallorossa. Il rapporto doveva essere all’incirca di 4 a 1. Oggi, a detta di un sondaggio di alcuni ricercatori della Sapienza, nell’alveo urbano è di 3 a 1. Non ne sono del tutto convinto. Provate a fare alzare la mano ai bambini di una classe delle elementari e contate…
Dal 1929 al 1940, Campo Testaccio officiò un rito domenicale che acquisì, agli occhi di molti cittadini maschi adulti e minorenni, maggiore importanza della santa messa o delle parate ginnastiche fasciste. A piedi o col tram, pochi in bicicletta o con le auto a noleggio, i tifosi si recavano allo stadio della Roma, posto di fronte al Cimitero acattolico dove riposavano i resti del poeta John Keats e di altri illustri letterati inglesi e tedeschi. L’accesso allo stadio lungo via Marmorata avveniva nella più assoluta calma. Il tifo di allora era quasi completamente privo di accenti violenti. Bisogna dire che, negli anni ’30, i fili dei tifosi li teneva ancora la partita, e cioè il complesso di azioni e circostanze, l’atmosfera sempre varia che si produceva dal comportamento dei venticinque uomini in campo. I filmati LUCE rimandano immagini di spalti nereggianti, che sappiamo però vivacizzati dalla “pipinara giallorossa” delle bandierine di stoffa fatte in casa con le asticciole di legno, dei fazzoletti infilati nel fifau della giacca, dei foulard di seta Gloria tirati fuori dalle tasche e sventolati freneticamente. Qualche volta, appare un drappo più grande che viene passato per pochi attimi sopra le teste della gente. Si notano cartelli con scritte e vignette, a imitazione del football britannico, ma nessuno striscione denominante gruppi di tifosi.
L’idea stessa di un “Roma Club” o di un “Lazio Club”, vigente il regime, non era concepibile. La maniera di stare insieme i tifosi la trovavano durante la settimana, sul posto di lavoro o radunandosi sotto le volte delle gallerie del centro storico, nei caffè e nei bar. I laziali si gloriavano delle gesta di Silvio Piola, comprato dalla Pro Vercelli e ora centravanti della Nazionale campione del mondo. I romanisti avevano i dioscuri Ferraris IV e Fulvio Bernardini, cui si aggiunse, per qualche tempo, il “corsaro nero” Enrique Guaita, oriundo dell’Argentina e anche lui perno della Squadra Azzurra di Vittorio Pozzo.
Ovviamente, non esistevano siti web delle due Società o blog e stazioni radio dove sfogarsi e punzecchiarsi. La SS Lazio, addirittura, perse il giornale sociale edito negli anni venti, quello con le notizie sulla gita al Monte Soratte e il veglione di carnevale. Mentre la AS Roma, forte della sua base solidissima di ammiratori, avviò nel 1932 un giornaletto di pochi fogli, gestito da “super-tifosi” abbienti: un tipo di sostenitore più che malato, sempre un commerciante di successo, capace di tirare fuori la grana e commettere altre piccole pazzie. Il foglio si chiamò La AS Roma. Credo sia assai raro, giacché non ne ho mai avuta fra le mani una copia, e nelle biblioteche non c’è.
Più diffusa era la lettura de Il Littoriale e del settimanale satirico Il Tifone, che accoglievano le migliori firme giornalistiche. Altri supporti del tifo domenicale erano l’agendina col calendario del campionato, il programma pre-gara, gli imbuti per incitare a voce, le visierine di stoffa tipo tennis, il giornale trasformato in copricapo parasole in stile muratore, la brilluccicante spilletta sul bavero della giacca. Naturalmente, di teppisti allo stadio col preciso intento di scatenare casini, Campo Testaccio e il Nazionale, dove ad un certo momento si accasarono le aquile che notoriamente avevano nei figli maschi del Duce i primi tifosi, non se ne registrarono mai.
Tuttavia, il Testaccio acquisì la fama di “campo difficile” e, già dopo le prime partite, venne vietato l’ingresso di ombrelli e bastoni, o la vendita delle gazzose con le quali il pubblico si divertiva a fare il tiro a bersaglio quando le cose non andavano secondo i suoi gusti. Il Testaccio non fu mai squalificato per invasioni e altri motivi, ma una volta, nell’aprile del 1939, con l’antipaticissima Ambrosiana-Inter ci si andò vicino: i giocatori nerazzurri, uscendo vittoriosi dal terreno di gioco e infilandosi nella botola che immetteva negli spogliatoi sotterranei, irrisero i supporter dei popolari con gesti e sorrisetti; questi reagirono con una pioggia di sassi, insulti romaneschi e sputi. Il direttorio federale proibì per il resto del campionato di consentire l’accesso al settore della balconata con dietro il cimitero; vale a dire il posto più bollente dei tifosi che lavoravano al mattatoio.
Certo, non mancò qualche caso di raptus da invasore solitario, e almeno un derby finì con i cavalli dei carabinieri a rondare in mezzo al prato. Ma la scarsa intraprendenza dei tifosi verso gli arbitri, sospettati fin d’allora di servire la causa nordista, molto la si doveva al clima generale e al controllo esercitato dalle forze dell’ordine. La parte cattiva della tifoseria si sfogava nelle fischiate, che colpivano come grandine i giocatori in campo e le teste dei dirigenti in tribuna. Al Nazionale, i tifosi della Lazio si mostravano composti, più “educati” per così dire. Forse perché pagavano di meno? Consci che i giovani Bruno e Vittorio Mussolini stavano spesso in tribuna con la sorella Edda e il baby-sitter miliziano Vaccaro?
Non lo so. Però, c’è il fatto documentabile che la Roma praticava prezzi salatissimi, superiori a quelli della Lazio di un buon venti per cento, onde pagarsi le rate dell’impianto sportivo. Chi non aveva i soldi saliva sulla cima del Monte dei Cocci o sopra gli archi delle Mura Aureliane, da dove poteva scorgere un ritaglio di campo. Là, durante i derby, i laziali di certo non andavano. Sembra che Alberto Sordi, da pischello, sia stato un assiduo scalatore. Fu lui a dire che di aquilotti se ne vedevano pochi in ascensione. Io stesso ho visto con i mei occhi certe sedioline ripiegabili, fabbricate a mano e dipinte di giallo ocra e rosso scuro, in vendita a prezzi esosi in una bottega d’antiquariato.
Insomma, l’avete capito: il Nazionale e il Testaccio rispecchiavano il carattere di due tifoserie accomunate da un identico trasporto ma già piuttosto diverse fra loro. Assolutamente freddo il primo, tanto grande da presentare larghi spazi vuoti. Molto caldo il secondo, più a misura di un appassionato di calcio e costruito non in cemento bensì in legno, tale da ballare la rumba a ogni gol – tremava proprio – risonante di canzoni una delle quali, la più gettonata, ricordava: “Cor core acceso da la passione, undici atleti Roma chiamò…”.
L’idea che il laziale fosse un “soggetto”, un elemento della minoranza esecrabile e, in quanto tale, cojonabile e perfino un poco bullizzabile, prese piede in quegli anni di consenso al fascismo. Gli “indifferenti” da un verso, lo erano molto meno quando si trattava di discettare di calci inferti a un pallone di cuoio. Me ne sono accorto scrivendo i miei due libri sul tifo romanista. Su alcune rubrichette di giornali sportivi, soprattutto il Tifone, Arcitifo Sportifo ma anche sul Littoriale, si avvertono i classici sintomi: le telefonate a casa dell’amico laziale per sfotterlo dopo il derby; le vignette satiriche dove l’aquilotto appare invariabilmente un allocco; i bar Ferraris e Masetti nei quali l’avventore biancazzurro se la vede spesso brutta, al punto da scappare di corsa senza consumare quanto pagato; i talk of the town di personaggi tifosi messi in caricatura, che ripropongono battibecchi tra le due specie umane col romanista nelle vesti del “quirite setteggenerazzioni” difensore del “prestiggio della Capitale”, alla Tinéa proprio, sicurissimo del fatto suo. E, davanti a lui, minino minimo rispetto alla maestà dell’altro, il laziale borghese a volte dandy, cauto al limite del pavido e che non trova le risposte a tono, pure se lo si intuisce più colto. Non ancora burino, no: quella sarà una trasmutazione del dopoguerra. Ve ne parlerò nella prossima puntata.