Marco Impiglia con foto e riflessioni sulla tifoseria napoletana
Circa due mesi fa, al Mattatoio a Testaccio, ho rivisto il “Pazzariello”. Come la stella cometa per i Magi, ho pensato: questo è un segno, vuoi vedere che il Napoli Calcio vince lo Scudetto?
Infatti, domenica gli “azzurri” marini scenderanno all’Olimpico per sfidare la SS Lazio. Un eventuale successo li lancerebbe nella volata per il titolo, con ottime possibilità soprattutto se sapranno ritrovare la verve di inizio campionato.
E possono farlo, dopo una vittoria a Roma, perché ha tutta l’aria di essere un anno nero per la Nazionale, e il Napoli ha vinto l’ultimo titolo nel 1990, in concomitanza con un clamoroso autogol degli Azzurri per antonomasia.
Se il Portogallo ci eliminerà dai Mondiali prossimi, come purtroppo i bookmakers inglesi danno per probabile (1.60 a 2.25), staremmo
nel solco della tradizione.
È un Napoli fortemente “osimeniano”. L’avrete notato, pochi giorni fa nel vento di Cagliari, no? Spalletti ha mandato dentro il gigante nigeriano, che ha la Victoria financo nel nome, e i suoi compagni si sono dati una scossa.
Osimehn gridava e gesticolava come un ossesso, mascherato da ninja che incuteva paura, e devo ammettere che mi ha fatto una certa impressione!
Negli anni ’30, si diceva che il Napoli fosse legato nei risultati agli estri del centravanti Attila Sallustro, bello ed elegante come un Rodolfo Valentino, cacciatore di donne profumate, maschio al cento per cento.
Da contraltare funzionavano gli “scartellati”, da sempre considerati dei portafortuna dal popolo napoletano.
La gente si radunava davanti al bar di Pippone in via di Santa Brigida per fare un po’ di “chiacchiera sportiva”.
Alla metà degli anni ’50, la Galleria al centro storico si riempiva per ascoltare in diretta le radiocronache. C’era il biondo svedese
Arne Selmosson “raggio di luna”, comprato dalla Lazio e che il popolo chiamava “’o banco ‘e Napule”, per i cento milioni di lire che era costato ad Achille Lauro, il presidente padrone dei cantieri navali.
Un giorno che il campione ruzzolò per le terre durante una fase di gioco, dagli spalti di Fuorigrotta si levò il lamento che era “caduto” il banco: l’ironia rassegnata che anima Pulcinella.
Poi passò come una meteora Omar Sivori, fortissimo sì, ma in realtà sbolognato dalla Juve-Fiat.
Comunque, col folletto argentino “cabezon” in manovra, gli azzurri sfiorarono lo scudetto seriamente nel 1966 e poi ancora nel 1968, quando, col cespuglioso Bruno Pesaola in panchina, arrivarono secondi; ma a molte leghe di distanza dal Milan di Nereo
Rocco e del “golden boy” Gianni Rivera, per essere precisi.
Diego Armando Maradona fu un’invenzione cataclastica del presidente Ferlaino, strappato al Barcellona che più non sopportava i vizi cocainomani del
fuoriclasse indio. Corrado Ferlaino veniva dai quartieri alti, uno snob con un passato di corse automobilistiche su strada come il conte Giannino Marzotto, e che Alberto Sordi centrò perfettamente allorché interpretò il personaggio principale del film Il Presidente del Borgorosso Football Club.
Ricordiamo che l’imprenditore Lauro l’aveva favorito nella corsa alla proprietà del pacchetto di maggioranza, intravedendo in lui le qualità del nocchiero predestinato.
A quei tempi, ancora si faceva girare ‘o Ciuccio con i palloncini biancazzurri; ma oggi sarebbe difficile, vista la penuria di ciuchi.
Aurelio De Laurentiis, produttore cinematografico di estrazione capitolina tra l’altro, mi pare sia un bell’incrocio tra Lauro e Ferlaino. Ha il piglio rivoltoso e populista del primo, generosamente battagliero contro il Nord, che accusa di essere oltremodo sfacciato nella sua manutenzione collusiva del potere; difensore, a tal fine, della morigeratezza e della correttezza massima nei rendiconti sui registri.
In più, l’argenteo De Laurentiis ripropone talune manifestazioni sultaneggianti che erano state del monarchico Lauro, nel modo di porsi a livello comunicativo; ad esempio, la censura ai cori razzisti che da decenni turbano le trasferte della squadra. Un atteggiamento che non dispiace al popolo tifoso, abituato com’è alla scena, alla propaganda e alla pompa dei capi camorristi.
Quello del rapporto tra il sostegno appassionato della gente alla squadra di football, le varie dirigenze che si sono succedute con casini anche gravi (il fallimento con la perdita del titolo sportivo nel 2004), e gli stessi giocatori, a loro volta preda delle lusinghe della criminalità organizzata, sarebbe un argomento tutto da approfondire. Ma lasciamo stare: neppure Roberto Saviano ci ha minimamente provato…
E allora, andiamo sul leggero e sul folcloristico.
Vaghiamo tra i sentieri della semantica e dell’antropologia, con un tocco di linguistica e di etimologia. Sapete chi ha inventato il vocabolo “tifo” in Italia? Sono stati proprio i napoletani, all’incirca nel 1919.
Le prime tracce della parola nella sua nuova accezione risalgono, infatti, ai giornali narranti le imprese del Savoia di Torre Annunziata, la squadra dei Voiello della pastasciutta che inalberava lo scudo rossocrociato sulle bianche casacche; vice-campioni d’Italia nel 1924 dietro al Genoa.
Avessero vinto lo spareggio nord-sud, sarebbero stati i primi a cucirsi lo scudetto tricolore sulle maglie.
Originariamente, il termine tifo ebbe più il significato di sofferenza piuttosto che quello di fazione. Si sottolineava il carattere ciclico del tifo sportivo, malattia domenicale o stagionale simile all’alzarsi periodico delle febbri tifoidi.
All’indomani dell’armistizio con austriaci e tedeschi, pareva proprio che il clima di violenza respirato durate la guerra ‘15-18 fosse rimasto in qualche modo appiccicato agli appassionati di calcio, in una misura tanto più virulenta quanto più fiere si rivelavano le rivalità campanilistiche sui campi di gioco.
Tutti gli anni ’20 del Novecento furono percorsi da questo filo rosso della violenza dei giocatori e dei sostenitori; violenza che rispecchiava la realtà del clima politico e sociale.
Ecco, dunque, un chiaro aggancio col substrato sismico della cittadinanza che trae il nome dalla vergine Partenope. Il tifo l’ha originato il Vesuvio: un fuoco profondo che erompe incontrollabile, fluisce rosso e giallo giù per il pendio della montagna incantata e divora tutto il bene e il male che incontra. Il tifo per il Napoli Calcio è “ctonio” (vedi l’Enciclopedia Treccani): allegro, fantasioso e irriverente, ma anche tragico, furente e invasivo.
Esce fuori di slancio dai suoi confini naturali e porta la “napoletanità” in giro per il mondo. Come la città.
E vorrei chiudere con una massima dedicata al Milan e all’Inter: ‘O furmene coglie a chi sta cchiù ‘ncoppa.
E siccome la morte è banalmente democratica ma anche splenetica e, dunque, romantica, vorrei chiudere con un verso di Baudelaire, che ci sta bene: O Morte, vecchio Capitano. È ormai tempo, salpiamo.