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Corelli, il calciatore della Lazio che marciò su Roma

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Le tessere del Partito Fascista e della Milizia.

Sabbato ar colosseo di Marco Impiglia

Storia di un patriota, fascista per caso. Il racconto di Marco Impiglia a 100 anni dalla Marcia.

 

Ricorre il centenario. Siccome noi italiani non ci facciamo mancare niente, giusto ricorre mentre al Parlamento siede una maggioranza che ha il suo punto di forza in un partito erede del Movimento Sociale; a sua volta rampollato dalle ceneri di una Repubblica Sociale che, nel 1944-45, era quanto restava della pretesa di Benito Mussolini di fare dell’Italia una potenza universale formata da uomini e donne fascisti eredi, anche loro, di un impero dai colori, guarda un po’, giallo e rosso (porpora e oro).

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Corelli calciatore in una Lazio dei pionieri

Ma qui muto i simboli e vi voglio parlare di un campione biancoceleste. Immagino poco noto ai più, si chiamava Corrado Corelli, di professione era scultore e fu senz’altro un patriota. Medaglia al valore durante la Grande Guerra e in azione pure nella seconda guerra mondiale, quella nazifascista per l’appunto.

Soprattutto, quel che qui ci interessa è il fatto che Corelli fu uno dei circa ventimila militanti che, il 28 ottobre di cento anni fa, sciamarono a piazza del Popolo. Con il loro capo che era rimasto a Milano, per paura che il re Vittorio Emanuele disponesse lo stato d’assedio e lo facesse arrestare.

Quel giorno, il futuro dittatore era pronto con le valigie nell’appartamento per scappare nel vicino Ticino. Così come gli sarebbe capitato molti anni dopo, allorché un “laziale”, Ivo Bitetti, lo riconobbe nel suo travestimento da soldato tedesco e permise ai partigiani di acchiapparlo a Dongo. Ma questa è un’altra storia, che raccontai per filo e per segno per il giornale la Repubblica. Andate a cercarla sul web perché vale la pena.

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Le tessere del Partito Fascista e della Milizia.

Dicevo dei rivoltosi fascisti che, dalla Porta con lo stellone a otto punte, entravano nella Città Santa. Erano quasi tutti repubblicani. Uno dei pochi ad avere simpatie per Casa Savoia era Corrado Corelli. Esiste un nastro da qualche parte, registrato su un apparecchio Geloso, in cui Corelli racconta la sua vita. Che fu molto movimentata.

La mia cara amica Emilia, figlia di Corrado e che ora abita nelle Marche, ha scritto al riguardo pagine vive. Esse aprono uno squarcio di luce su un episodio della storia d’Italia che oggi, per i più, è un qualcosa di nebuloso, facile preda di distorsioni ideologiche. Invece, la vicenda, vista con gli occhi di uno dei protagonisti, è assai semplice. Dice l’Emilia in un suo libro (cose che mi confidava, durante gli incontri a tè e pasticcini che abbiamo avuto nella sua casa a piazzale Clodio):

Quando la prima guerra mondiale si concluse, i reduci del fronte non ebbero, in molti casi, una buona accoglienza. Mio padre mi raccontava che durante il ritorno a casa, nelle varie stazioni ferroviarie di percorrenza e di arrivo, i facinorosi comunisti li aggredivano con sputi e insulti. Gli aderenti all’Internazionale Rossa, infatti, avendo condannato la guerra ora si scatenavano contro i militi i quali, però, dopo tre anni passati in prima linea, rischiando la pelle per la Patria, così aggrediti inevitabilmente reagivano. Per questo e molti altri motivi, non ultima la grave inflazione, dalla fine della guerra l’Italia fu teatro di disordini, moti di ribellione popolare spesso fomentati dai rossi.

Costoro, ritenendo che fosse giunto il momento d’imporre il modello rivoluzionario russo, agivano con attentati, manifestazioni di piazza e scioperi. In questo clima di caos, mio padre partecipò in maniera attiva a contrastarli e a cercare di restituire l’ordine a Roma, città la cui popolazione, come in altre località italiane, vedeva nel movimento fascista l’unica via, in contrapposizione ad un governo centrale debole, per tornare alla normalità.

Quando le milizie fasciste entrarono in Roma, il 28 ottobre 1922, lui marciava con loro e raccontava che, mentre percorrevano in colonna via del Corso transitando davanti al caffè Aragno, noto ritrovo di intellettuali, molti li trovò plaudenti e inneggianti a Benito Mussolini; tra loro parecchi suoi conoscenti che, durante tutto il periodo dei disordini politici, mentre gli aderenti al movimento fascista rischiavano in prima persona, erano imboscati nella saletta interna del caffè a criticare e deplorare l’operato del partito fascista.

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Membro della MVSN, le famose “camicie nere”

Qualche tempo dopo quegli stessi, indossata la camicia nera, proclamavano a gran voce: «C’ero anch’io, sono un fascista della prima ora!». Mio padre concludeva il suo racconto commentando con sarcasmo: «Da sempre esistono gli opportunisti, cosa non si fa per la pagnotta!».
Man mano che il potere si consolidava mio padre, però, se ne allontanava; non accettava che avessero assunto il potere uomini che lui non esitava a definire criminali, come Farinacci che si era macchiato di violenze inaudite ed aveva tenuto la città di Cremona nel terrore. Definiva buffonate demagogiche del regime il Sabato Fascista, le Corse Salutari e non accettava l’esaltazione retorica della figura di Mussolini.

Inoltre, egoisticamente non perdonava al Duce di avere bonificate le paludi Pontine, meta delle sue grandi battute venatorie. Tuttavia, conoscendo a fondo quel territorio, era ammirato della grandiosa opera compiuta in tempo relativamente breve. Mio padre aveva deciso che, fino a quando Mussolini si fosse circondato di palloni gonfiati, spesso anche incapaci (uno dei quali era senz’altro Achille Starace), lui la camicia nera, testimone di tante lotte che avevano contribuito a riportare la tranquillità nel paese, l’avrebbe indossata come camice da lavoro.

Questa protesta la proclamava a gran voce, non aveva paura di esprimere liberamente il suo pensiero e sapeva di avere una forza: quella di aver dato tutto se stesso a un ideale con profonda lealtà e disinteresse. Ma, purtroppo, constatava che l’ideale nella realtà dei fatti era fallito, come d’altra parte avviene nella maggioranza dei casi. E ciò lo amareggiava fortemente.

Trovo molto significativo l’accenno agli intellettuali dell’Aragno che prima sbeffeggiavano e poi applaudivano. Mi pare che anche Trilussa l’abbia rilevato. Quanti, durante le “stagioni giorgiane” che ci prepariamo a sperimentare, si inventeranno un’anima di destra pur di galleggiare? Questo vizietto degli italiani sembra davvero vecchio e incistato bene. Comunque, per finire il discorso su Corelli, il nostro era un vero patriota: incapace di “assiettarsi” su una comoda poltrona di comando ma prontissimo a rischiare la pelle per l’Italia. Così, allo scoppio della seconda guerra, quella “sbagliata” a fianco del pazzo Adolf, nonostante avesse superato la cinquantina e non ci credesse, fece la valigia e partì per il grande nord col grado di tenente colonnello. Riprendo gli scritti di Emilia Corelli:

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Il tenente colonnello Corelli ispeziona le cucine di una tradotta sul fronte russo, 1942

Gli fu assegnato il comando delle tradotte destinate a spiegare le truppe italiane sul fronte russo. Per mesi, partendo da Verona viaggiò tra Polonia, Ungheria e Russia. Durante quegli interminabili viaggi la tradotta sostava a lungo nelle regioni polacche e ungheresi, e più di una volta mio padre si trovò ad incrociare alcuni carri merci scortati dai reparti “SS” dell’esercito tedesco. Essi, come seppe più tardi, contenevano le vittime sacrificali della barbarie razziale hitleriana.

Quando fui più grandicella, mi raccontò che, all’epoca, non si spiegava quel massiccio trasporto di civili che intravedeva nella penombra, all’interno dei vagoni, quando le porte venivano lasciate socchiuse. Percepiva che dentro vi stavano ammassate creature sofferenti, soprattutto donne e bambini.

Avrebbe voluto offrire loro dell’acqua e qualche galletta ma, non appena provava ad aprire lo sportello del suo vagone fermo sul binario, allineato a quei carri merci con il loro carico umano, le sentinelle tedesche, sebbene lui fosse un ufficiale, gli intimavano di richiuderlo. Riuscì solo a fermare sulla carta alcune delle scene che tanto l’avevano colpito. Uno di questi disegni a pastello si trova ora nel Museo dell’Olocausto di New York.

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Un carboncino preparatorio dal vero di una scena che vide con i suoi occhi: gli ebrei portati nei lager in Polonia. Il pastello che poi ne trasse sta oggi esposto al Museo dell’Olocausto di New York

Si trattava del Corpo di Spedizione Italiano in Russia allestito nel luglio del 1941 per sostenere Hitler nella “Operazione Barbarossa”. Al principio 62.000 uomini, bene equipaggiati e composti da reparti scelti, soprattutto alpini; poi, altri 230.000 facenti parte dell’ARMIR, giovani inesperti, male equipaggiati e recalcitranti come i coscritti borghesi di Putin dei tempi attuali. Molti di loro, dopo venti mesi di guerra in condizioni disperate, con temperature invernali a meno venti sopportate con scarpe suolate di cartone, tornarono tra il 1943 e il 1945 a piedi in quella che fu ricordata come la ritirata italiana della campagna di Russia.

Il disegno di Corelli delle vittime della Shoah chiude questo mio modesto apologo. Che in fondo ci rivela come la Storia sia sempre una tribolazione umana, ossia fatta da uomini, diavoli e angeli, o più spesso un fritto misto dei due.