Gli Europei di 53 anni fa. Gli incredibili aneddoti ed i ricordi storici della nazionale italiana di calcio nella rubrica di Marco Impiglia.
Vorrei iniziare questo ricordo con le parole dettate da Antonio Ghirelli – grandissimo collega che ebbi la fortuna di conoscere – per il suo pezzo d’apertura sul Corriere dello Sport all’indomani del trionfo di Facchetti e compagni, all’Olimpico 53 anni fa: «Forse è stata una dichiarazione rilasciata dal presidente Franchi, domenica mattina e trasmessa dalla Tv nella “Domenica Sportiva” dell’amico Tortora a gettare le premesse per la vittoria azzurra nella seconda finalissima del Campionato d’Europa.
Con l’apparente scetticismo e la profonda serietà che lo distinguono, il Presidente federale puntualizzò in quella dichiarazione un concetto piuttosto coraggioso, allorché sottolineò che a suo avviso la Nazionale aveva già acquisito il risultato più importante la sera precedente, cioè il sabato, non tanto per la resistenza opposta alla forte Jugoslavia, quanto e soprattutto per la manifestazione imponente d’entusiasmo e di patriottismo che essa aveva suscitato prima ancora di scendere in campo, al solo apparire sul tabellone luminoso dell’Olimpico del magico annuncio: “Italia-Jugoslavia, finale per il primo posto”.
Il prolungato sventolio del tricolore, l’urlo ruggente ed appassionato che per quasi tre quarti d’ora aveva preparato l’ingresso dei giocatori sul terreno di gioco, rappresentavano in effetti un eloquente dimostrazione della ritrovata unità intorno ai colori della nostra squadra e, in una dimensione più elevata, della patria»
Vedete bene le analogie che accomunano l’impresa di allora con quella che i nostri Azzurri si apprestano a compiere oggi: l’unità di intenti e l’attesa della gente, che ha fiducia in loro. Dopo, ovviamente, ci vorrà tanta Fortuna e una buona dose di “cazzimma”, come si dice.
Avevo sette anni e appena rammento le immagini in bianco e nero sul grosso apparecchio Telefunken in salotto. I nostri gol trovati più per voglia che per superiorità tecnica o di gioco; ma quasi “scesi dall’alto”, preordinati, attesi, un po’ come alla vigilia del Mondiale 2006, quando qui a Roma tutti suonavano i clacson, certi della vittoria immancabile, fin dalle prime ore del mattino. Se avvertirete la medesima atmosfera, oggi con i turchi e nella finale a Wembley (incrociamo le dita), allora sì che tutto sarà compiuto.
Non vi sto qui a riassumere le tappe che portarono quei magnifici ragazzi figli di una guerra perduta a vincere il primo trofeo post-fascista del calcio italiano. La stolida partita con l’Unione Sovietica al San Paolo di Napoli sotto una pioggia mostruosa, con l’ala Domenghini e il portiere Zoff sugli scudi, Rivera e Bercellino infortunati, il palo al 118°, la conclusione incredibile, giusta e ingiusta allo stesso tempo, vinta la sfida da capitano Facchetti al lancio della monetina negli spogliatoi.
E poi la doppia finale a Roma con l’altra superpotenza comunista, la Jugoslavia. Settimo scontro nella cronologia, mai avevamo perso contro di loro, ma rischiammo di brutto nella finale uno, l’8 di giugno, che i trans-adriatici dominarono. I nostri troppo stanchi per quanto fatto con i russi. Gli jugoslavi giovani e molto tecnici, col sempiterno centrattacco Dzajic che segnò quasi subito, ma il cavallone Domenghini pareggiò il punto in una delle rare incursioni nell’aerea slava. L’imperativo, per gli uomini del CT Mitic che avevano eliminato in semifinale gli inglesi campioni del mondo, era univoco: vincere. Oppure si poteva rischiare di finire in una certa isoletta brulla su a nord, al largo dell’Istria, un gulag segreto approntato da Tito e di cui nessuno proferiva a voce alta il nome. (Neanche oggi i croati ne parlano volentieri…).
Il lunedì 10 giugno, Ferruccio Valcareggi cambiò sei undicesimi della formazione che aveva resistito nel primo scontro tremendo del sabato, e quella mossa risultò decisiva. Pochi lo sanno, ma fu praticamente il medico a scegliere i giocatori. E si sarebbe arrivati ai supplementari e al sorteggio con la monetina anche nella finale-bis, se non che le reti di Gigi Riva e Pietro Anastasi, il “baby” di sangue siculo lanciato a sorpresa nella prima finale e confermato nella seconda, evitarono l’intervento della Dea bendata; che chissà se si sarebbe concessa ancora una volta.
Gianni Brera, nel suo gustoso “Storia del calcio italiano”, afferma che la vittoria arrivò da un arbitro, lo spagnolo Ortiz, franchista e quindi ostile agli jugoslavi rossi (ma bianchi sul campo). Secondo lui, importantissima fu la mossa di mettere Sandrino Mazzola interno, nel ruolo tenuto dall’”abatino” Gianni Rivera. Cosa che permise al “recuperatore di palloni” Giancarlo De Sisti di giocare una partita superba. E lì si costruì il centrocampo che vinse il match. (Compaesano Mancini, fai la mossa giusta quando arriverà il momento…)
Sette anni fa, mi capitò d’incontrare “Picchio” a un bar all’Alberone e di sentire la sua versione dei fatti, inserita dentro una chiacchierata di un’ora. Eccola… e ruota tutta attorno alla famosa “staffetta” Rivera-Mazzola:
Vedi, il discorso di un calciatore di classe eccelsa come Mazzola, abituato a un certo tipo di gioco tutto corsa, dribbling e tiro a rete, spostato invece a fare l’interno, con compiti precisi di appoggio, un ruolo in sostanza di sacrificio, poteva sembrare un azzardo.
Valcareggi improvvisò il cambio per cause di forza maggiore e l’azzeccò in pieno.
Tra l’altro, se ne sarebbe ricordato due anni dopo, a Messico ’70, quando la “staffetta” effettivamente entrò nell’epopea,
riconosciuta dai giornalisti come tale.
Ma i prodromi ci furono proprio agli Europei del ’68. Prima di quella partita del 10 giugno, Mazzola era uno dei cinque attaccanti più forti al mondo.
Dopo quella partita, in cui si tramutò in centrocampista con attitudini offensive, lui non fu più un goleador, e in qualche modo venne retrocesso.
Non lo dico io, lo dicono le statistiche dei gol segnati. Dopo la finale del ’68, Mazzola realizzò tanti altri gol, certo, nell’Inter e in Nazionale, ma non più come prima. E ti dico un’altra cosa: in Messico, durante il trasferimento in aereo per la capitale dopo la semifinale vinta in quel modo con la Germania, la stampa chiese al dirigente Walter Mandelli, che stava a capo del settore tecnico federale, quale formazione gli sarebbe piaciuta vedere in campo col Brasile. Mandelli rispose: quella della seconda finale del Sessantotto, con Mazzola al posto di Rivera.
Disse questo perché sapeva che la difesa, comandata da Facchetti, preferiva la soluzione-Mazzola. Con Sandro si soffriva molto di meno, mentre con Gianni si aveva il “tocco in più”, la genialata.