A chi andrà la Coppa del Mondo? Storia e aneddoti delle precedenti regine, con Marco Impiglia.
Siamo a poche ore dalla finalissima, che vedrà protagoniste la Francia campione in carica e l’Argentina campione del Sud America. Argentina che giocò anche la prima finale della storia. La “Albiceleste” nella prima edizione del 1930 in Uruguay fu battuta dai padroni di casa. Intorno a quella finale disputata il 30 di luglio al Centenario di Montevideo, girano molte storie. Ad esempio, le biglietterie esaurirono in poche ore i 93.000 biglietti. Tutt’intorno allo stadio, soldati armati e guardie a cavallo vigilavano, così che circa 50.000 persone rimasero fuori. L’arbitro belga John Langenus ebbe a garanzia una polizza assicurativa sulla vita e la possibilità di salpare con una nave per l’Europa subito dopo la partita.
Fu posto il problema del pallone. Quello dei padroni di casa, il “Modelo T” aveva un cuoio più sottile ed era più leggero. Si decise che nel primo tempo si sarebbe giocato con la “Pelota Argentina” e nel secondo col “Modelo T”. L’andamento del match fu conseguente: nei primi 45′ andarono meglio gli ospiti, nei secondi la “Celeste” ribaltò lo score. Nello spogliatoio, José Nasazzi, il capitano uruguagio, osservava tutti per capire la situazione. Gli si avvicinò Peregrino Anselmo, l’attaccante del Peñarol, uno che con lui aveva vinto la medaglia d’oro alle Olimpiadi di Amsterdam del 1928. Anselmo, pallido come uno straccio bagnato, a testa bassa disse: “Signor capitano, non ce la faccio, ho paura d’andare lì dentro!”.
Il poveraccio era stato minacciato dal mediano argentino Luis Monti, quello che poi sarebbe passato alla Juventus e avrebbe vinto il Mondiale del 1934 con l’Italia. Nel silenzio più assoluto, “El Capitan” guardò il compagno per un istante, poi lentamente gli sfilò dalle mani la camiseta e la diede a Hector Castro. E fu proprio l’attaccante del Nacional a realizzare l’ultima rete del 4 a 2. Castro aveva una particolarità: gli mancava la mano destra, all’età di tredici anni l’aveva persa manovrando una sega elettrica. I tifosi all’inizio lo chiamavano “El Monco”, ma presto cominciarono ad aggiungerci il sostantivo divino, perché era troppo bravo. Nella foto della squadra schierata c’è una nota tenera, che emoziona ancora oggi: si vede Castro accosciato, che con la mano sinistra nasconde il moncherino.
Questa volta vado in ordine cronologico, così che ci spostiamo in avanti di quattro anni, al primo Mondiale giocato in Italia. La finale fu tra gli Azzurri e la Cecoslovacchia. Il 10 giugno 1934, allo Stadio Nazionale di Roma, osannato da quasi 50.000 spettatori, Benito Mussolini, con una candida divisa marinara addosso, si sedette in tribuna accanto a Jules Rimet per assistere al suo trionfo. Che era sicuro come la morte. Molti dei 277 giornalisti stranieri di 29 paesi non l’applaudirono, perché speravano che gli italiani perdessero e perché una precisa disposizione vietava loro di lasciare l’impianto prima dell’uscita di scena del duce. I cancelli furono chiusi e, incredibilmente, giornalisti, atleti, ufficiali e pubblico rimasero prigionieri del dittatore per quasi tre ore.
I gol del 2 a 1 furono firmati da Puc, Orsi e Schiavio. Il bolognese Angiolino Schiavio dopo la sua marcatura perse i sensi. L’italo-argentino “Mumo” Orsi segnò una rete con un tiro ad effetto raro a vedersi. Il giorno dopo, con tutta la rappresentativa tornata allo stadio per la foto ricordo, venne sfidato dal centrattacco Giuseppe Meazza a ripetere il tiro: provò e riprovò decine di volte, sempre dalla “mattonella”, ma non gli riuscì la prodezza.
Su Francia 1938 solo un paio di dettagli, curiosi però: nella finale Italia- Ungheria, al momento di scendere in campo per salutare le squadre, il presidente francese Albert Lebrun chiese a Jules Rimet: “Qual è la squadra della Francia?”. L’ideatore e presidente della FIFA, senza scomporsi, rispose: “La Francia è l’arbitro, Eccellenza”. Gli Azzurri vinsero 4 a 2 ma pochi sanno che, in caso di supplementari senza esito e col replay pure senza un vincitore, la coppa da regolamento sarebbe stata assegnata ex aequo.
La partita decisiva (non la finale perché era un gironcino) del 1950, il famigerato “Maracanazo”, meriterebbe da sola un romanzo. I primi cinque match il Brasile li vinse tutti, segnando una caterva di reti. Essendogli sufficiente un pareggio con l’Uruguay nell’ultimo impegno, l’entourage brasiliano affrontò la vigilia come se avesse già vinto. E furono 199.854 gli spettatori assiepati nel nuovo stadio. Incredibile quello che successe a seguito dell’epilogo inatteso, ovvero il 2 a 1 a favore degli uruguagi: la banda con gli ottoni e i tamburi scomparve d’incanto. La bandiera uruguaiana non fu trovata da nessuna parte e i giocatori in maglia celeste furono costretti a fare il giro d’onore con quella brasiliana.
Nella baraonda di una folla in trance, Rimet incrociò il capitano Obdulio Varela e gli consegnò la piccola coppa d’oro quasi di nascosto, con una veloce stretta di mano. Fu tale la disforia collettiva che vide calare attorno a sé, che Varela, dopo la partita, vagò per ore per i bairros di Rio, bevendo birra fino ad ubriacarsi. Tentò anche di consolare i disperati tifosi brasiliani, che non lo riconoscevano. Venne proclamato il lutto nazionale e parecchia gente, che aveva scommesso sulla vittoria della Seleção, finì in rovina e si suicidò. Si decise che il Brasile non avrebbe mai più indossato la tenuta bianca. E così è stato: si passò al giallo-verde-blu.
Nel 1954 in Svizzera altra enorme sorpresa: la Germania batté 3-2 l’Ungheria del fuoriclasse Ferenc Puskas. Il mattino della finale, ci si accorse di uno strano fenomeno davanti allo Schweizerhof, il quartier generale dei campionati. Uomini diversi nei modi e nell’aspetto dagli indigeni si davano una gran daffare a proporre ai passanti i biglietti. Si trattava dei bagarini italiani, per lo più emigrati dal meridione, in specie da Napoli. Dopo il match, nelle mani la coppa d’oro vinta grazie a uno speciale dopaggio già usato dai soldati nazisti, la comitiva tedesca ripartì in treno dalla stazione di Berna. Sul fianco dei vagoni qualcuno aveva dipinta la scritta: “Weltmeister”: Campioni del Mondo. Il treno giunse a Monaco dopo un tragitto che, per il motivo che in ogni posto la gente lo bloccava, durò una settimana.
In ogni cittadina e villaggio c’era il sindaco ad aspettare con la banda, le donne lanciavano fiori e la popolazione donava ai giocatori cibo e ricordini. Alla fine, la puzza del formaggio e degli insaccati ammassati in uno dei vagoni era tale che si dovette buttare la roba andata a male. Il viaggio degli eroi si tramutò in una festa di riconciliazione nazionale, che lavava via le sofferenze della guerra perduta. La scena conclusiva del capolavoro di Rainer Werner Fassbinder, “Il matrimonio di Maria Braun”, ha luogo durante la finale. Sullo sfondo, lo speaker celebra la vittoria gridando: “Deutschland ist wider was!” (la Germania è di nuovo qualcosa!). Nel 2003 un’altra opera ha reso omaggio all’impresa, “Das wunder von Berne”, di Sonke Wortmann.
In Svezia nel 1958, l’edizione più fair play della storia, al fischio di chiusura della finale, vinta 4 a 2 dal Brasile sui beniamini locali guidati dal regista del Milan Nils Liedholm, il pubblico svedese tributò un applauso corale. Molte ragazze lanciarono fiori mentre i brasiliani facevano il giro del campo con una
bandiera svedese. I pochi sostenitori ospiti presenti invasero senza problemi e la baldoria fu tale che, per una mezzora buona, non si poté procedere alla consegna della Rimet. I campioni tornarono in patria a bordo d’un aereo di linea scortato da sedici aviogetti militari. Intruppati sopra autopompe dei vigili del fuoco, attraversarono in parata le strade di Rio, festeggiati da una folla pazza di alegria. Fu stampato un album di figurine che andò a ruba.
Pelé era la giovanissima stella, autore di un “golazo com sombrero” nella finale. Lo Stato gli regalò una villa nei pressi dello stadio di Belmiro. Davanti alla sua casa di povero negro, dove ancora viveva con i genitori Dondinho e Celeste, gli venne fatta trovare un’automobile gialla nuova di zecca. Tutti ne suonavano il clacson ma nessuno sapeva guidarla. A notte alta, si dovette chiamare un camionista del posto che se la portò via, pregato dai genitori che volevano dormire in santa pace.
In Cile nel 1962 andarono forte le squadre dell’Europa comunista, cioè l’URSS dell’immortale portiere Lev Yashin, la Jugoslavia e la Cecoslovacchia. Nella finalissima con i boemi, i brasiliani rimontarono grazie a tre giocate di Amarildo, Zito e Vavà il gol iniziale di Masopust. Quando il russo Latishev diede il triplice fischio di chiusura, i verde-oro si ammassarono al centro del campo. Erano in dieci, mancava il numero undici, l’ala sinistra Mario Zagallo,svenuto per la stanchezza e l’emozione. Zagallo che avrebbe rivinto il Mondiale da allenatore otto anni più tardi.
Supremo artefice di quel Brasile bi- fu, però, l’ala destra Manuel Francisco dos Santos, che realizzò due doppiette agli inglesi e ai cileni. I brasiliani lo chiamavano “Garrincha”, che è il nome d’un vivace uccellino – un “passaro” – della regione in cui Manuel dimorava. Questo perché era piccolo sia rispetto ai compagni che per la sua generazione. Inoltre, si distingueva per la caratteristica di avere la gamba destra sei centimetri più corta dell’altra, e anche lievemente curva verso sinistra. In specie al cospetto dei maestri inglesi, Garrincha giocò un partitone. Una rete la realizzò con un tiro speciale che sapeva eseguire benissimo, “a banana”, vale a dire il colpo effettato a rientrare di collo interno che oggi si vede spesso.
In Inghilterra nel 1966, la finalissima fu degna della sua cornice: il maestoso Wembley Stadium colmo di 96.924 spettatori. Gli albionici, in maglia rossa, piegarono i bianchi germanici ai supplementari per 4 a 2. Ma il gol che decise tutto destò scandalo. Lo mise a segno Geoff Hurst al 101′; con un tiro potente che rimbalzò sulla traversa, sfiorò la linea di gesso e tornò in gioco. L’arbitro Gottfried Dienst si consultò col segnalinee di destra, Tofik Bakhramov , e, dopo un attimo di perplessità, puntò il dito verso il centro del campo. All’epoca, non esisteva la “goal line”, e tanto meno il VAR, così che nessuno seppe dire se il baffuto linesman avesse avuto ragione oppure no; soltanto i miglioramenti della tecnologia hanno permesso di districare il mistero.
Qualche anno fa, uno studio condotto a Oxford ha appurato che la palla non era entrata per sei centimetri. Ma… osservate un attimo la proiezione della palla! Vi suggerisce qualcosa? Su Bakhramov, in forza all’URSS ma di nazionalità azerbaigiana, si vociferò che la regina Elisabetta gli avesse donato un fischietto d’oro in cambio del servigio reso. Quella coppa del mondo è rimasta l’unica vinta dagli inventori del football.
Messico ’70, come dimenticarla per chi c’era o la vide alla tele? Nel mio caso, un portatile attaccato alla batteria dell’auto in una casa di campagna in Sabina, sotto la montagna di San Gennaro, mentre un temporale aveva staccato la luce. Lasciamo stare i famosi “sei minuti di Rivera”, vi parlo piuttosto di Jairzinho, l’ala destra del Brasile.
La rete del 4 a 1 che affossò le residue speranze azzurre di beffare i maestri del futebol bailado la mise a segno proprio lui, Jair Ventura Filho, in arte Jairzinho: una staffilata in diagonale su invito smarcante di Pelé, che in quella partita segnò e s’industriò a fungere da assist-man, un po’ come Messi e Maradona. Il racconto della sua celebrazione scritto in un’autobiografia: “Nel momento preciso in cui scaraventavo la palla nella rete ho pensato al mio paese. E sono corso fin sotto la tribuna, ai bordi del campo, e mi sono inginocchiato e ho alzato le braccia al cielo e ho ringraziato tutti i santi di Rio, che sono moltissimi, a cominciare da Nostra Signora di Copacabana. Obrigado, obrigado! A voi santi di Rio de Janeiro!”.
I santi, già. Santi in paradiso e santi sulla terra, o su un prato rettangolare rasato di fresco e bene innaffiato nella periferia di Monaco di Baviera. Ricordo che alla metà degli anni ’80 andai a visitarlo, quell’impianto, ed era davvero magnifico. L’Olanda di Johan Cruijff, il profeta del gol punta di diamante degli “Orange”, fu battuta 2-1 in rimonta dalla stolida Germania guidata dal “Kaiser” Franz Beckenbauer. Gli ospiti andarono in vantaggio al primo minuto per un fallo da rigore su Crujiff che arrivò senza che gli avversari potessero neppure toccare il pallone dall’istante del calcio d’avvio. Avevo tredici anni, stavo vedendo la finale al Bar Vanni e credetti che tutto fosse già finito. Ero al settimo cielo perché tifavo, come molti ragazzini della mia età, per i fichissimi olandesi.
Ma poi ci pensò un certo Gerd Müller a rivoltare la frittata. C’è ancora esposto, in alcune birrerie in Germania, un poster che piace molto: vi si ammira il portiere Sepp Maier che si pone la coppa d’oro massiccio sulla testa, quasi fosse un prezioso copricapo. Il trofeo che non era più la piccola coppa Rimet, aggiudicata per sempre al Brasile, bensì quello attuale, più pesante e scenografico, quindi adatto alla Tv. Maier era noto per essere il burlone della compagnia. Per quel che si sa, fu il primo ad osare una mossa del genere con un simbolo sacro come la coppa del mondo di calcio. Domani, vedrete, qualcuno lo farà senz’altro.
Della finale tra Argentina e Olanda del 1978 giocata a Buenos Aires, la prima trasmessa in Italia a colori col sistema Pal, chi l’ha vista in diretta satellitare potrebbe ricordare lo spettacolo della pioggia di coriandoli e rotoli di carta igienica da tutti i settori dello stadio al momento dell’entrata delle squadre. Il campo del River Plate rimaneva a circa un chilometro dalla Scuola Navale Meccanica, il più importante dei centri di detenzione messi su dai militari. I prigionieri politici potevano udire i rumori dello stadio.
Le guardie interrompevano le sessioni di tortura per i gol del “Matador” Mario Kempes. Graciela Daleo, una delle sopravvissute della Scuola Navale, in uno scritto ha detto del grido belluino “abbiamo vinto!” che il capo della Intelligence, Acosta “El Tigre”, esplose al momento del triplice fischio finale del nostro Gonella. Quindi, in preda a un’euforia incontenibile, il Tigre acchiappò alcuni di loro e li infilò in una Peugeot 504. Guidò come un folle per le strade piene di gente ubriaca di gioia. Ma la cosa più strana sapete qual è stata?
Il segretario americano Henry Kissinger, in quei giorni in visita per curare le relazioni tra gli USA e quell’efferato regime liberticida guidato da generali, si gustò la finale seduto accanto al dittatore Videla. Per compiacerlo, al calcio d’avvio profetizzò l’esatto risultato che sarebbe poi maturato ai supplementari: Argentina 3 Olanda 1. Chapeau!
Italia-Germania 3-1 al Bernabeu di Madrid l’11 luglio del 1982. C’eravate sulla Terra? Io sì. Aprì le danze “Pablito” Rossi. A seguire, il guerriero Marco Tardelli, un altro juventino, batté Schumacher gridando la sua felicità pazzesca in mondovisione. Il nostro terzo gol fu segnato in contropiede da “Spillo” Altobelli. L’interista beffò il portiere biondo e crucco facendogli passare la palla in mezzo alle gambe. Poi sorrise, quasi incredulo, lui che aveva funto da riserva lungo l’intero torneo.
A quella vista, il presidente Sandro Pertini, che se ne stava nervosamente seduto accanto al re Juan Carlos, non resistette oltre: si levò come una molla e fece il gesto di no con la mano: “Non ci riacchiappano più!” Il giorno dopo, il carismatico e vivacetto presidente della Repubblica volle salire sull’aereo della Nazionale, per il ritorno trionfale a Roma. E lì si divertì a giocare a carte con Bearzot, Zoff e Causio, che ovviamente lo fecero vincere dandogliele tutte vinte.
1986, di nuovo in Messico, il super-mondiale di Diego Armando Maradona. Ancora i tedeschi presenti in finale, tenaci e duri da morire. Avevano in attacco Rudy Völler e Karl Heinz Rummenigge, che però era acciaccato. I due assi di stanza in Serie A non bastarono davanti all’indio Diego posseduto dal dio del sole e alquanto scatenato. Il campione del Napoli Associazione Calcio baciò la coppa e fece il giro del campo da eroe eponimo. Oggi è saltata fuori una foto, curiosa davvero, nella quale sembra indicare la bandiera del Qatar, inserita e riconoscibile nella schidionata di vessilli del cornicione alto dell’Azteca. Diego lo sapeva: avverrà un giorno nel deserto la vittoria numero tre della Albiceleste. Sarà vero? Presto lo sapremo.
A Italia ’90, finalmente i maledetti panzer teutonici acciuffarono la coppa. Ricordo i tifosi tedeschi a piazza Santa Maria Maggiore prima di recarsi all’Olimpico. Gonfi di birra, cantavano: “Rom gehört uns!” Roma è nostra! Rabbrividii pensando ai racconti della mia nonna Isolina che aveva passato i mesi terribili dell’occupazione delle truppe hitleriane. Al momento dell’inno argentino, dagli spalti dell’Olimpico rifatto a nuovo si levarono fischi sonori e
compatti all’indirizzo di Maradona, reo di avere eliminato gli Azzurri di Azeglio Vicini nella semifinale giocata al San Paolo di Napoli, quindi a casa sua. El Pibe de Oro reagì con un “hijos de puta!!” sillabato a più riprese, pieno di rabbia e di dolore. Poi, un “rigorino” decretò l’uno a zero.
Nel 1994, Brasile vs Italia fu la prima finale che si decise ai penalties. Noi avevamo il gioco modernissimo basato sul pressing e le “ripartenze” previste dal vangelo dogmatico di Arrigo Sacchi. Soprattutto, avevamo Roberto Baggio in grandissima forma. Motivo per cui era esplosa la “codinomania”, con i coiffeur stressati che si lamentavano per le richieste degli adolescenti d’acconciarsi la capigliatura come il campione.
Nel sipario al cardiopalma dei rigori di Pasadena, l’errore che fece epoca fu proprio quello di Baggio, un tiro alto sopra la traversa. Il veneto dagli occhi verdi e la pelle ambrata stette immobile con le braccia sui fianchi, il capo chino, il codino moscio, mentre il biondo e spelacchiato portiere Taffarel caprioleggiava davanti a lui. Roby aveva giocato in condizioni menomate per via d’una contrattura alla coscia destra. Si giustificò: “Non stavo bene. Ho battuto quel rigore contro natura. In genere, l’appoggio e questa volta ho scelto la legnata”.
Nel 1998, in Francia, la finale si disputò tra “les Bleus” di casa e i brasiliani. L’uomo più atteso era Ronaldo “o Fenomeno”, che arrivò all’appuntamento con un problema al ginocchio, così che gli fu praticata un’iniezione che gli causò convulsioni. Scoppiò un caso dell’ultimo momento. Si decise di rinunciare alla sua presenza e, nella formazione ufficiale diramata alla stampa, il nome di Ronaldo non comparve.
Quindi il campione migliorò un poco. Giocò il match, risultando appena l’ombra di sé stesso. Per mantenere tutto nel segreto, i brasiliani addirittura non svolsero il riscaldamento in campo. Due gol di Zinedine Zidane consegnarono ai galletti la coppa. L’asso di sangue algerino disse, crediamo senza malizia: “Non me l’aspettavo così facile con i brasiliani: li ho sorpresi due volte partendo da dietro…”.
O forse una siringata nel posteriore? E allora, diamo spazio ai derelitti. Il 30 giugno 2002, giorno di Brasile-Germania in Giappone, il Bhutan, penultimo nel ranking FIFA, e il Montserrat, ultimissimo (oggi lo è San Marino), diedero vita a una sfida epocale denominata: “The other Final”. Lo scopo era di stabilire la squadra più debole del pianeta. Vinsero (persero?) l’incontro, nell’impianto Changlimithang di Thimphu, i giallorossi del Bhutan 4 a 0. Allo stadio di Yokohama, intanto, questa volta toccava a Ronaldo festeggiare, autore di una doppietta assassina che fece secco l’imbattibile Oliver Kahn. Rispetto a quattro anni prima, il fenomeno nato e cresciuto a Rio si era acconciato la testa “alla Monica”.
La finale Italia-Francia del 2006 a Berlino. Chi dimentica il “Coup de Boule” – titolo di una canzone e di una statua di bronzo che stava esposta a Doha, tra l’altro – di Zidane al gigante Materazzi? Ma anche i cinque rigori su cinque buttati dentro dagli Azzurri! Vincemmo proprio grazie a Zidane, che si fece espellere ai supplementari nel momento esatto in cui stavamo per cedere alla forza superiore degli afro-transalpini. Il franco-algerino perse l’aplomb all’insulto calcolato del difensore italiano romano: “Preferisco la puttana di tua sorella!” La frase di Marco Materazzi rimase misteriosa fino a quando non la rese nota in un libretto.
Nel frattempo, la FIFA aveva squalificato anche lui, costringendolo a rappacificarsi col francese. Pareri favorevoli alla reazione di Zidane giunsero dalle comunità islamiche: in sostanza, “Zizou” aveva fatto quello che ogni buon musulmano deve fare per difendere un congiunto. Anche sui rigori, un libro fece chiarezza. Marcello Lippi svelò il retroscena della scelta dei rigoristi: «Fischia l’arbitro, tutti a guardarmi, come a dire: “Scegli me, scegli me!”. Quando ho detto a Fabio Grosso: “Tu sei il quinto” – Lui: “Il quinto?”. “Sì, tu sei l’uomo dell’ultimo minuto, perché hai fatto il rigore con l’Australia al 94′, hai fatto il gol alla Germania all’ultimo minuto, ed ora fai l’ultimo rigore, OK?”. “OK”». Occheissimo! E merci bien al tremante zebrotto Trezeguet, ipnotizzato dal compagno di squadra Gigi Buffon.
Sud Africa 2010, la finale si disputò l’11 luglio a Johannesburg, in alta quota. Alla vigilia di Spagna-Olanda, l’attenzione dei media converse sul “polpo Paul”. Il tipetto era stato pescato all’Isola d’Elba e viveva da gran signore in una vasca del centro marino di Oberhausen, in Germania. Agli Europei 2008 era balzato agli onori delle cronache per la sua capacità d’azzeccare i risultati, scegliendo il cibo tra due bandierine. Questa volta, l’intelligentissimo ottopode emigrato si diresse senza esitazioni verso la cozza nella scatolina col vessillo giallorosso, e così tutti seppero chi avrebbe alzato la coppa; ma la cozza gli fu indigesta, perché morì poco dopo.
Altre due curiosità pure ve le voglio dire: la prima riguarda l’autore del gol decisivo ai supplementari, Andres Inesta. “El Mago” celebrò la sua prodezza, giunta quando ormai la sarabanda dei rigori sembrava certa, mostrando una t-shirt con la quale volle onorare un compagno di squadra morto due anni avanti durante un ritiro della nazionale iberica svolto a Coverciano. La seconda curiosità concerne il coach Vicente Del Bosque Gonzalez, che è stato il primo nobile di sangue a trionfare in un Mondiale. Egli è, infatti, un marchese riconosciuto nell’albo araldico. Consapevole del tasso tecnico mostruoso dei suoi muchachos maestri del tiqui-taca, usava ripetere: “L’umiltà deve essere la nostra prima qualità”.
Nel 2014 in Brasile, i tedeschi, che avevano umiliato 7-1 in semifinale i padroni di casa dando vita al “Mineirazo”, ebbero dalla loro un super Miroslav Klose. Il centravanti laziale cancellò il record di Ronaldo di 15 reti, e aveva la caratteristica di celebrarli con un salto mortale che raramente gli riusciva
bene, per cui lo staff tecnico cominciò a chiedergli di evitare. Ma lui no: testardo…insisteva. E la Nationalmannschaft passava i turni.
La sfida conclusiva all’Argentina di Leo Messi, nella gran cornice di un rinnovato Maracanã, tuttavia, non venne decisa da Miro bensì da un carneade qualsiasi. Precisamente, la risolse ai supplementari il gol di un panchinaro: Mario Götze. Joachim Löw, il selezionatore fighetto che portava capi firmati e i capelli a caschetto acconciati con frivola cura, lo mise dentro all’88’ dicendogli: “Vai e dimostra che sei meglio di Messi!”. E quello, per tutta risposta, segnò il gol-partita al minuto 112. Mentre Lionel, il Pallone d’Oro asso del Barcellona, steccava l’acuto finale.
Domani, il team vincitore dell’edizione numero 22 della FIFA World Cup riceverà un premio di 42 milioni di dollari; nel 2018, la Francia ne incassò 38. La armée multi-etnica di Didier Dechamps superò, en souplesse per 4 a 2, la Croazia del folletto Luka Modric nella finale disputata il 15 luglio al Luzniki di Mosca. Ma pochi sanno che quella vittoria fu il frutto di una ben studiata scaramanzia. Prima di ogni match, tutti i giocatori francesi, per primo “le petit diable” Antoine Griezmann, andavano a tirare i baffi a punta al corso Adil Rami, e il successo era assicurato. Nel deserto del Qatar, il rodomontesco difensore di sangue marocchino per raggiunti limiti di età non è andato. E infatti, giusto domani…