Storie di droga, corruzione, furti e prostitute… L’altra faccia del pallone, svelata da Marco Impiglia.
«Di libri che hanno narrato le vicende dei Mondiali ne sono stati scritti tanti. Ad ogni edizione rampollano a decine, in tutte le lingue. Ma una storia raccontata per aneddoti, per lampi di storie e scorci di figure, questa ancora non esisteva» – così mi capitava di scrivere otto anni fa. Nel frattempo, qualcosa di analogo è stato pubblicato. Ma credo che i “miei” aneddoti rimarranno unici, se non altro perché sono stati i primi ad essere raccolti in maniera sistematica. Detto questo, avanti con la seconda carrellata di storielle minime e strane: mi basta sfogliare.
USA 1994, siamo alla vigilia della partenza dei nostri ragazzi, guidati dal “santone” Arrigo Sacchi, ai quali i vescovi italiani mandarono un messaggio di auguri: «Siate perfetti, come è perfetto il vostro Padre nei cieli». Si trattava d’un verso dal Vangelo di San Matteo. Alla perfezione ci si andò vicino, grazie a Roby Baggio, a parte i rigori della finale. Ma la cosa più originale che mi ricordo fu la corsa folle di Maradona dopo il suo gol ai greci al Foxboro Stadium. Il Diego, non più grasso e di nuovo tirato a lucido, corse verso la telecamera più vicina ed esultò con un belluino grido di rabbia che ne mise in risalto gli occhi allucinati. Si narra che il cameraman, vedendoselo arrivare addosso, abbia abbandonato la sua posizione.
Non passò molto da quella prodezza del “Pibe de Oro” e uscì la notizia che era stato trovato positivo all’antidoping di Argentina-Nigeria. Cinque sostanze nelle urine, tra cui l’efedrina e altre da medicinali dimagranti. La FIFA sospese il giudizio e, in piena notte, il presidente della Federazione, Julio Grondona, telefonò al ritiro per dirgli che l’avevano escluso dalla squadra al fine d’evitargli l’umiliazione della squalifica. Maradona aveva avanzato accuse contro Havelange e Blatter per gli orari assurdi delle gare. Gli argentini si convinsero d’una vendetta. Il messicano Guillermo Canedo, presidente del Comitato Organizzatore, disse una frase rivelatrice: “Certo è strano che di dopati ci sia solo lui su 140”.
E allora vogliamo proprio parlare di drogati? Andiamo in Svizzera nel 1954. La finale fu tra l’Ungheria, grande favorita e che fino a quel momento aveva asfaltato tutti, e la sorpresa Germania. A Berna, però, Morlock e Rahn pareggiarono i gol iniziali di Puskas e Csibor. Nella ripresa, ancora Rahn segnò il 3-2. Nei minuti finali, il segnalinee gallese Sandy Griffiths fece annullare un gol regolare di Puskas.
“Benché vi sembri incredibile – gridò il radiocronista Herbert Zimmermann – la Germania è campione del mondo!”; giusto accanto a lui, il collega magiaro, György Szepesi, scoppiò in lacrime. Famosa è, ancora oggi in Germania, la frase che Zimmermann scatenò sulle onde lunghe herziane: «Rahn schiesst… Tor! Tor! Tor! (otto secondi di pausa per prendere il respiro) … Tor fur Deutschland…. Drei zu zwei fur Deutschland. Halten sie mich fur verruckt, halten sie mich fur ubergeschnappt!» (Rahn ha segnato…. Gol Gol Gol… Gol per la Germania. Tre a due per la Germania. Chiamatemi pazzo, chiamatemi matto svitato!).
I giornali europei subito scrissero che “il miracolo di Berna” era dovuto all’ottima preparazione atletica. Una settimana dopo il trionfo, però, cinque membri della squadra finirono all’ospedale con l’itterizia. Nella stagione successiva, quasi tutti i componenti della nazionale rimasero fermi mesi. I sospetti si appuntarono sul medico tedesco Franz Loogen. Artefice del miracolo era stata una miscela a base di vitamina C e anfetamine, iniettata nell’intervallo della partita. Già i nazisti usavano quel particolare cocktail per rendere insensibili al dolore i soldati.
Politica e calcio, sì: un abbinamento danzante. Pigiamo il pulsante su Argentina 1978, l’edizione più chiacchierata della storia. Altro che Qatar 2022! Lì c’era il regime vero, quello di Videla e dei “desaparecidos”. Più di tutto, la vittoria dell’Argentina venne bruttata dalla combine che attuò col Perù. Era la sera del 21 giugno, si giocava a Rosario e ai biancocelesti servivano quattro reti di scarto per superare in classifica il Brasile e approdare alla finalissima. Opportunamente, i brasiliani li si era fatti giocare nel pomeriggio, così che ogni dettaglio era stato ben preparato. Il primo tempo si chiuse sull’1-0, ma nel secondo i peruviani si sciolsero come neve al sole.
Il portiere Ramon Quiroga, che era un argentino nato a Rosario, lasciò passare i palloni con un’arrendevolezza sospetta. Dopo il Mondiale, si venne a sapere che il governo aveva mandato gratuitamente per nave 35.000 tonnellate di grano in Perù, ed anche un bel quantitativo di armi. Inoltre, la banca centrale d’Argentina autorizzò lo sblocco d’una linea di credito di 50 milioni di dollari. Un testimone dell’epoca afferma che circolarono bustarelle per tre nazionali peruviani. Oggi nel 2022 quasi più nessuno contesta che la partita fu comprata, anche se Quiroga non ha mai ammesso nulla. La vicenda è passata alle cronache come “la marmelada peruana”.
Basta! Le storie di corruzione mi annoiano, mi allontanano dalla bellezza del gioco più ecumenico che esista. E allora ridiamo un po’. Di cose buffe ce ne sono tante da riempire un camion con rimorchio. Uruguay 1930, la semifinale si disputò fra l’Argentina e gli Stati Uniti. John Langenus, il più bravo dei tre arbitri europei che fecero compagnia agli altri tutti americani, protagonista nella finalissima che diresse solo dopo avere ottenuto un’assicurazione speciale sulla vita, fu testimone d’un episodio nella semifinale suddetta.
Langenus fischiò un fallo contro gli yankees, che schieravano vari professionisti scozzesi nelle loro file – oggi mi pare siano gli australiani a farlo – e subito il medico del team USA irruppe in campo per contestare la decisione. Nel correre, inciampò e gli si aprì la borsa dei medicinali che teneva a tracolla. Si ruppe una bottiglia di cloroformio, i fumi raggiunsero il tipo steso a terra che entrò in stato d’incoscienza. Lo si dovette portare fuori a braccia.
Inghilterra 1966, a casa degli inventori del football che ci tenevano a non fallire l’occasione. E per fortuna che quella volta ebbero il piccolo Pickles a tirarli fuori dalle sabbie mobili. La storiella girò il globo terracqueo a qualche mese dall’avvio della competizione. Erano le undici e trenta del mattino del 20 marzo 1966 quando Walter Bletchley, lavoratore agricolo, salì le scale fino al primo piano del Municipio di Londra, fece saltare senza sforzo la maniglia, entrò nella sala dove c’era una esposizione di francobolli a soggetto calcistico e s’impadronì della Rimet, adagiata sul velluto rosso d’una vetrinetta senza la difesa di un minimo sistema di allarme. Poi se ne andò indisturbato.
La notizia della piccola coppa fregata uscì. Il ridicolo si abbatté su Scotland Yard. Gli epigoni di Sherlock Holmes, tuttavia, si riscattarono. In quarantotto ore acciuffarono il ladro. Il giorno del processo venne fissato, ma la refurtiva non si trovava. Problema grave, poiché i Mondiali erano alle porte. Fu il cagnolino Pickles, una settimana dopo, a risolvere l’impiccio, abbaiando come un matto per attirare l’attenzione di un “lighterman”, un operaio addetto alla accensione delle chiatte del Tamigi, sulla Rimet: il trofeo, avvoltolato in un giornale, stava accanto alla ruota di una macchina parcheggiata ad Upper Norwood, area a sud di Londra. Come ricompensa, Pickles, il cui nome significa “sottaceti”, fu invitato alla festa di celebrazione della vittoria del team inglese.
Italia ’90. Poteva mancare? Scelgo tre curiosità. La Panini di Modena pubblicò un album, portando così avanti la tradizione iniziata a Messico ’70. L’album fu acquistabile a mille lire già nel gennaio del 1990. Siccome le liste finali dei 22 non erano ancora note, la Panini fu costretta a fissare per ogni team un certo numero di “titolari”. Per la precisione, ne ipotizzò 17 per le nazionali considerate di valore, mentre le inferiori ne ebbero 16, e per di più con le figurine appaiate tipo “Serie B”. Tra gli azzurri selezionati dagli esperti rimase fuori Salvatore Schillaci, futuro top-scorer del Mondiale.
La seconda curiosità riguarda il portiere colombiano René Higuita, il cui cognome in gergo colloquiale significa “fighetta”. Higuita aveva l’aspetto di un gorilla pieno di muscoli, con una cascata di riccioli neri come Sandokan sulle spalle. Era soprannominato “El Loco”, per via degli atteggiamenti. In campo spesso se ne andava in giro, palla al piede, a cercare d’umiliare gli attaccanti avversari. Il coach Francisco Maturana l’aveva avvisato di non commettere sciocchezze. Tuttavia, nell’ottavo di finale col Camerun, ad un certo punto Higuita si avventurò parecchio fuori dell’area e tentò di dribblare il centravanti Roger Milla. Ma quello gli soffiò facile la palla e la depositò nella porta. Fu il gol che eliminò la Colombia dal torneo.
La terza storia ha dell’incredibile, eppure accadde in diretta in mondovisione, l’ha raccontata a una radio qualche tempo fa Gary Lineker: “Ho fatto la cacca in campo durante quel match con l’Irlanda ai Mondiali italiani. Nell’intervallo non mi ero sentito troppo bene. Poi sono entrato in scivolata su un avversario, mi sono rilassato e… per fortuna aveva piovuto e mi sono pulito con l’erba bagnata. Ma è stato imbarazzante. L’esperienza più brutta della mia carriera di calciatore”.
Non so perché, ma improvvisamente mi sento sporco, e c’è un odore indefinibile sul terreno di gioco. Per analogia, mi viene in mente la pisciata eseguita da Ronaldo al centro del campo durante Brasile-Ungheria alle Olimpiadi del 1996, subito dopo il pareggio dei magiari: due momenti indimenticabili del calcio moderno. Molti anni fa, invece, i giocatori erano più seri. Per esempio, ai Mondiali del 1950 in Brasile, l’India si qualificò grazie al forfait delle squadre di Burma, Filippine e Indonesia. Tuttavia, i dirigenti FIFA non l’ammisero alla fase finale perché gli indiani pretendevano di giocare scalzi, come erano soliti fare. E poi c’è la storia dei nostri campioni che andarono a puttane in Francia nel 1938…
Quella volta, l’Italia al debutto rischiò di essere spedita a casa dalla cenerentola Norvegia. Vittorio Pozzo, perfezionista com’era, non ci dormì la notte in albergo, perché non si capacitava della cattiva prova dei suoi. Eppure, ogni cosa era stata pianificata per iniziare bene il torneo. Solo una giocata del centrattacco Silvio Piola nei supplementari aveva rattoppato la situazione. Ma il problema non era di natura tecnica, né psicologica, bensì di natura fisica: da due mesi i ragazzi vivevano in ritiro, controllati come suore di clausura.
Delegato dai compagni, il capitano Giuseppe Meazza si fece sotto: “Lo sa, Mister, perché siamo andati male? – pausa ad effetto del “Balilla” – perché ci abbiamo il sangue grosso!” Pozzo scosse il capoccione: glie l’avevano detto anche i medici che la cosa ad un certo momento avrebbe giovato. Ci pensò un attimo e rispose in un sibilo: “E sia. Ma niente concessioni al vizio: l’atto naturale”. Quella sera, i bordelli di Marsiglia videro ospiti quasi tutti i nazionali italiani.
I casi della vita, come si dice. Per vincere un Mondiale, occorre avere il caso dalla propria parte: un grosso caso. Prima del match a eliminazione diretta con i brasiliani a Spagna ’82, il cittì Enzo Bearzot portò i suoi a vedere Argentina-Brasile, partita spareggio che avrebbe detto molto sul destino degli Azzurri. Trovarono posto nella calca del Sarrià di Barcellona e dovevano urlare per scambiarsi le opinioni.
Nell’intervallo, nei pochi minuti di tregua che l‘orchestrina di samba alla loro sinistra aveva concesso, Bearzot chiese ai difensori: “Chi se la sente di marcare Zico?”. Non finì la frase che s’alzò una voce: “Io, Mister”. Era “Gheddafi” Gentile, lo juventino cresciuto in Libia. Tre gol di un rinato Pablito Rossi devastarono poi il Brasile, e inutili furono le reti di Socrates e Falcao. Al povero Zico, Claudio Gentile poco gentilmente strappò la maglia per fermarlo a un ingresso in area.
Ma a nulla sarebbe valso “l’arresto” del tripolino nei confronti del pericolo pubblico numero uno senza lo spettacolare “save” all’ultimo secondo del quarantenne Zoff, su un colpo di testa precisissimo e violento di Oscar. Il Dino monumento nazionale bloccò la sfera sulla linea di gesso con un’intuitiva parata in tuffo. Quindi, ad evitare sorprese, corse verso il guardialinee, il bulgaro Bogdan Ganev Dochev, e gli fece segno di no con la mano: la palla non aveva varcato la linea. Quello lo guardò un attimo. Il portiere italiano aveva un cognome uguale a un suo vicino di casa poliziotto a Varna: tenne ferma lungo il braccio la sua fatale bandierina. Dochev era lo stesso tipo di funzionario statale che, quattro anni dopo, non si sarebbe accorto della “mano di Dio” di Maradona, deviato nella decisione da un segnalinee tunisino che quel giorno aveva le emorroidi. Ma guardate un po’ come si decidono i Mondiali di calcio…