Dopo i fantastici Europei di nuoto, Marco Impiglia fa luce sull’inizio del nuoto competitivo
Il dominio assoluto dello squadrone italiano – maschi e femmine – agli Europei di nuoto nel magnifico scenario del Foro Italico ha dell’incredibile. Non è più una vanteria affermare che l’Italnuoto è un movimento secondo al mondo solo agli Stati Uniti d’America. Con tutta probabilità, alla prossima kermesse olimpica parigina supereremo nazioni che in Brasile ci sono rimaste davanti di brutto. In primis l’Australia, per tradizione principale rivale degli USA, e poi il Canada, il Giappone, la Corea del Sud e la Cina. La Gran Bretagna già l’abbiamo surclassata qui a Roma, e, credetemi, non è stata impresa da nulla in uno degli sport olimpici per eccellenza.
Parlo di “classe”, sì. Una predisposizione alla disciplina che, però, si basa su una cura e un lavoro immensi da parte della Federazione. Paolo Barelli, che da ventidue anni la dirige con le idee chiare, ha avuto la fortuna di raccogliere bene da una lunga semina. Il boom è partito nei primi anni ’80, quando le piscine di istituti scolastici privati e di società sportive, adibite all’agonismo, hanno cominciato a far proseliti nelle città, e Roma è stata la capofila. La provincia negli anni ’90 ha seguito a ruota, per cui, se valutiamo i nostri medagliati, ci accorgiamo di un dato lampante: essi provengono sia da piccoli insediamenti urbani sia dalle metropoli. Il centro-nord prevale sul meridione, ma questa è una situazione che è presente da sempre, comune ad altre discipline dove la carenza degli impianti fa la differenza.
Sono lontani i tempi in cui Novella Calligaris, classe 1954 come Barelli, piccola e graziosa, snella e all’apparenza indifesa, meravigliava sé stessa e tutti gli addetti del mestiere per la sua concorrenza nello stile libero alle gigantesse, pompatissime di ormoni, della Germania comunista.
All’epoca, le tedesche orientali insidiavano la supremazia di statunitensi e australiane, ma molto dovevano ai laboratori di Lipsia che, dalla fine della guerra mondiale, non avevano smesso un attimo di varare “polverine magiche”. Fiale che dapprima avevano tenuti svegli i soldati del Terzo Reich, e poi erano state adattate all’uso sportivo.
Oggi nel 2022, la Germania dell’Est, la nazione di ondine e tritoni, siamo noi, e senza aiuti dalla chimica. Oltre alle tante mamme che accompagnano, oramai da decenni, i loro bambini nella piscina vicino casa, dobbiamo ringraziare un altro fattore: l’aumento della statura dei nostri ragazzi e delle nostre ragazze.
Per gli uomini, secondo gli ultimi dati, si aggira sul metro e settantotto, e quando si va a Udine e a Bolzano aumenta ancora. Gli americani viaggiano sullo stesso vagone. I giganti teutonici e scandinavi qualcosa meglio. I più alti sono gli olandesi con 1 e 83 (171 le donne), ma non più i dieci centimetri di scarto sicuri di una volta.
Per uno storico dello sport, ancora più incredibile appare il risultato di Roma ’22 se si guarda indietro di qualche generazione. Pensate che nel 1930, quando sorse la FIN dall’originaria organizzazione Rari Nantes, di cui tra poco diremo, sui giornali si poteva leggere una lamentela al limite dell’assurdo: i tempi cronometrici delle campionesse americane nello stile libero erano migliori di quelli registrati dai nostri detentori uomini!
Il regime fascista, tutto volto all’innalzamento dell’Italia a potenza sportiva mondiale, naturalmente questa cosa non la poteva accettare. Giunsero maestri dal Giappone, dall’America e dall’Ungheria, ad insegnare in alcuni centri provvisti di piscine olimpioniche scoperte, ad esempio lo Stadio Littoriale di Bologna e il Nazionale di Roma, come si faceva correttamente una subacquea per buggerare decimi di secondo agli avversari.
Ma Berlino 1936 era maledettamente vicina per addivenire a immediati risultati, e Londra 1948 sarebbe stata troppo lontana, stante il disastro della guerra perduta in mezzo.
Ma come si era arrivati a uno smacco simile? Perché i nostri bisnonni non sapevano nuotare? Eppure, per gli Antichi Romani tenersi a galla era una dote imprescindibile del legionario. Fatto è che la città di Berlino nel 1936 aveva più piscine da sola di tutto il meridione italiano. Berlino capitale di un paese col suo sbocco sui mari nordici, mentre l’Italia è una penisola allungata nel Mediterraneo con due grandi isole a supporto. Per spiegare l’arcano, ecco due parole, e qualche concetto che non avreste mai immaginato, sulle scaturigini del nuoto italiano. Che sono soprattutto capitoline.
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Una domanda: sapete quando venne varato a Roma il primo impianto moderno di piscina con i trampolini fissi ad uso agonistico? No, non fu la “piscina del duce”, l’impianto al coperto dove si fa scuola di nuoto e di tuffi all’Università del Foro Italico, che è roba del 1930. La prima piscina agonistica risale al 1920, edificata per il Centro Militare di Educazione Fisica che stava alla Farnesina.
Solo tre decadi separano quell’evento – la prima struttura statale per il nuoto – dai primordi del nuoto sportivo. Che ebbe all’inizio motivazioni igieniche e salutistiche, e solo in seconda istanza si completò di fini agonistici. La culla fu il Tevere, giacché di piscine non ne esistevano e il nuoto a mare risultava difficile da praticare. Dal romanzo I Malavoglia di Giovanni Verga, pubblicato nel 1881, sappiamo che gli stessi pescatori di professione avevano paura di immergersi in mare aperto. La frase iconica della famosa canzone di Lucio Dalla ha un suo senso essoterico.
Potrei elencare svariati nomi, riguardo ai pionieri del nuoto tricolore, e alcuni fra loro erano stati protagonisti dei moti risorgimentali. Ma il nome che mi sovviene per primo è quello di Michelangelo Santoni, un trentino che di mestiere faceva lo scultore, sceso a Roma per le commesse facili che si ricevevano nel suo settore. Abitava a piazza San Marco, tra l’altro.
Santoni conosceva bene il tedesco, tradusse manuali austriaci in italiano e li passò ai suoi colleghi “fiumaroli”, gente abituata a bagnarsi nel Tevere con ogni tempo e in ogni stagione. Nel 1888-89, c’era dunque questo bel gruppetto di nuotatori intemerati del Tevere e anche dell’Aniene, su a risalire le sponde fino a Tivoli, che decisero di costituirsi in club: il primo circolo del nuoto nella storia dell’Italia.
Chiacchierando della cosa sulle rive del sacro fiume, essi litigarono su un punto proposto dal più giovane fra loro, il laureando in archeologia Enea Cianetti. Un articolo che recitava: Prometto sul mio onore che nessuna persona affogherà davanti a me senza che io cimenti la mia vita per salvarlo.
C’era molto di asseverativo nella formula proposta; e anche un pizzico di fanatismo e d’irrazionalità, ché non tutti gli uomini sono uguali e non si può obbligare a rischiare la propria vita, per statuto e regolamento, chi desidera far parte di una società sportiva. Una fazione bocciò l’articolo donchisciottesco.
Ne derivò la netta scissione in due brigate distinte. Quelli ostili al giuramento nel 1889 costituirono la Società Romana di Nuoto, e subito aprirono una scuola in una località chiamata “Doccione”, o “dell’Acqua Fresca”, situata all’altezza più o meno di piazza del Popolo.
Molti erano medici, chirurghi e professori di fama, direttori di ospedali. Gli altri, quelli favorevoli al giuramento, quasi tutti artisti, il 17 settembre del 1891 fondarono la Rari Nantes Roma.
Rari Nantes: sapete che significa? Dal verso virgiliano “adparent”, apparvero, “rari nantes”, pochi nuotatori, “in gurgite vasto”, nella vastità delle onde. La prima sede sociale della novella società fu una capanna situata duecentocinquanta metri a valle della scala dell’Albero Bello, dove oggi stanno i circoli Canottieri Roma e Lazio. Ponte Regina Margherita, all’epoca, era giusto in finale di costruzione. La sponda sinistra del Tevere, al pari della destra, si allungava selvaggia, con spiagge di sabbia polverosa e canneti fino a ponte Milvio. E dopo c’era la campagna.
Santoni e i suoi “rari nantes” portavano delle mutandine a righe bianche e azzurre, in un tempo in cui i bagni a mare si facevano completamente vestiti, indossando costumi che erano oggetto delle facezie dei caricaturisti. Alcuni fra loro avrebbero partecipato alla fondazione della Società Podistica Lazio 1900.
Santoni era un fanatico del nuoto escursionistico, capace di coprire 302 km distribuiti in 286 gite durante l’anno solare. Come i suoi consoci, non temeva temperature dell’acqua sui nove, dieci gradi centigradi, i cosiddetti “cimenti invernali”, una prova di coraggio che si svolgeva a Santo Stefano.
Santoni si attivò per creare una rete di società rari nantes al nord: a Milano, a Genova e a Torino. Il 14 agosto del 1898, organizzò il primo Campionato Italiano di Nuoto sul Lago di Bracciano, avvalendosi della locale RN Sabatia di Anguillara, appena fondata, e che va annoverata anch’essa tra le pioniere. A seguito del successo di quel primo campionato nazionale, vinto dal milanese Arturo Saltarini, sorsero le RN di Genzano, Bracciano e Albano.
La FIRN venne invece costituita a Como nel 1899, ad opera di un altro scultore e nuotatore: Giuseppe Cantù. Ma è bene dire che della formulazione del primo statuto federale furono incaricati gli stessi pionieri della RN Roma. Di lì, la storia andò avanti con prove agonistiche regionali, interregionali e nazionali effettuate di preferenza nei fiumi e nei laghi, e che quasi sempre salutarono vincitori campioni liguri.
Tutti questi nuotatori praticavano uno stile poco ortodosso, ben distante dal crawl che invece alcuni già praticavano dalle parti dell’Australia. Si alzavano meccanicamente le braccia e si dava un colpo di gamba, senza il movimento ad elica di oggi. Molti, addirittura, facevano solo una sorta di nuoto a rana primitivo.
Anche nella pallanuoto il primo club ad apparire nell’Albo d’Oro della FIN è il Genoa, gli stessi rosso-blu del football. E tuttavia, per il “waterpolo” le scaturigini sono laziali al 100%. Secondo le nostre indagini, i primi ad esibirsi furono i preticelli scozzesi e irlandesi alle Acque Albule di Tivoli, nel 1892.
Sulla scorta di una “lezione” ricevuta dagli inglesi in tour della Life Saving Society of London (il nuoto di salvamento essendo un altro dei punti fermi del pionierismo), la Rari Nantes Roma bandì e si aggiudicò, nel 1901 e 1902, i primi campionati FIRN senza colpo ferire, ovvero priva di avversarie.
Esisteva un altro club che praticava il waterpolo seguendo un regolamento belga, la Nettuno Milano, ma si rifiutò di scendere nella Capitale. Quelli della Romana di Nuoto trovarono il coraggio di sfidare i “coccodrilli biancazzurri” solo nel 1903, subendo un secco tre a zero alle Albule.
I pionieri della pallanuoto capitolina raggiungevano facilmente lo stabilimento grazie a un trenino che aveva il capolinea a Porta San Lorenzo. Poi si buttò nella mischia anche la Lazio, i ragazzi di piazza della Libertà, buscandole e finalmente vincendo. Ricordo che l’amico Mario Pennacchia, vent’anni fa sosteneva, per via del suo infinito amore per i colori biancocelesti, che fossero stati proprio i laziali ad avere avviato la pallanuoto tricolore. Ma così non è…
Il discorso sulla matrice quirite del nuoto e della pallanuoto, e anche dei tuffi, sarebbe lungo e tortuoso, impossibile qui da risolvere in poche battute. Piuttosto, voglio lasciarvi con un aneddoto mai raccontato, strepitoso e in qualche modo attuale, tale da farvi aprire la bocca ad imitazione della “o” di Giotto.
Avete presente il Laghetto del Giglio a Villa Doria Pamphilj, quello prossimo all’ingresso di via di Donna Olimpia? Lo specchio d’acqua dolce ridotto a uno stagno maleodorante e dove stanno crepando, per mancanza di ossigeno, cigni, papere, carpe e anatre? Beh, nel marzo del 1899, in preparazione a un Campionato del Lazio di Nuoto organizzato da un comitato nazionale per l’educazione fisica, vi annegò un ragazzo. A fianco, potete leggere l’articolo, per cui non aggiungo altro. Se non che, all’epoca, morivano in mare, nei fiumi e nei laghi, o nei canali, nelle paludi e negli stagni, una media di 800-1000 persone all’anno, e molti venivano ritrovati “arisommati”, gonfi a galla nel Tevere, sia nel tratto urbano che all’Acqua Acetosa.
Quel Campionato Laziale del 10 maggio 1899, sulla distanza di 200 metri al laghetto del Giglio (evidentemente oggi parecchio interrato rispetto a quei giorni), fu appannaggio del diciannovenne Gaetano Crucianelli, giunto secondo l’anno avanti per un maledetto crampo ad Anguillara.
Crucianelli orfano di madre e di padre, un ragazzo che si sforzava di leggere libri e si allenava di sera e di notte, al ritorno dal lavoro nei campi.
Aveva appreso a nuotare all’età di 14, avendo come maestro uno dei primi rari nantes, l’ingegner Carlo Jacometti.
Quello di Crucianelli è un nome dimenticato del nostro nuoto che vince tutto e mostra volti stupendi. Bellissimi da vedere, quando esprimono la gioia più grande negli occhi, rispondendo al coro affettuoso e trionfante dello Stadio del Nuoto.