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Italia-Inghilterra – La battaglia di Highbury del 1934

Azzurri in allenamento al White Hart Lane, campo del Tottenham

Azzurri in allenamento al White Hart Lane, campo del Tottenham

Amarcord di Italia Inghilterra di Marco Impiglia

Da qualche tempo sto aiutando un amico inglese – un ex professore in pensione che ha insegnato la lingua di Shakespeare nel nord Italia – a scrivere un libro sulla “Battaglia di Highbury”. Come molti fra voi sapranno, per lo meno quelli sugli “anta”, con questa denominazione si intende la sfida che nel 1934 la Football Association (gli inglesi non hanno mai avuto bisogno di aggiungere altro, loro furono i primi a istituire una federazione calcistica) lanciò agli azzurri di Vittorio Pozzo freschi campioni del mondo.  Il suddetto professore ha studiato a fondo la biografia di Pozzo e ricostruito tutti i movimenti del cittì precedenti alla partita. Che infatti venne preparata con estrema attenzione da entrambe le sponde. Una attenzione sia sportiva che, soprattutto, politica. Inghilterra-Italia del 1934 si caratterizzò per essere una sfida su molteplici livelli, e il più delicato fu quello ideologico-politico. La resa dei conti, trasportata su un verde prato rettangolare, tra l’emergente nazione mediterranea e la regina del “vecchio mondo”, il gigante coloniale chiamato Regno Unito.

Come scrive lo storico dello sport Simon Martin nella sua monografia Football and Fascism, the National Game under Mussolini, riprendendo una nota dall’agenda di Stanley Rous segretario della FA di allora, «The England Team was the side that every country wanted to play and beat. Mussolini’s offer of huge bonuses to his team for the Highbury game in 1934 was only a reflection of the immense prestige that was gained by any country beating England. Italy at least clearly regarded this as just as important as winning the World Cup!»

Il che, tradotto, vuol dire che il duce, dopo aver visto gli azzurri vincere a Roma la Rimet, ora voleva il sigillo notarile della supremazia nello sport di squadra più amato in Europa. E l’unico posto dove avrebbe potuto ottenere la ceralacca sulla pergamena era Londra, la capitale dell’impero più potente al mondo. Per questo motivo fece pressioni, attraverso Giorgio Vaccaro presidente della FIGC, affinché il premio in denaro per la vittoria fosse altissimo, e si assicurò che il test-match cadesse in una data molto vicina alla conquista del Mondiale: il 14 novembre. Pozzo non voleva incontrare gli inglesi a metà novembre, quando loro erano al top della condizione fisica, e si batté per posporre la sfida. Ma non ci fu nulla da fare. La comitiva italiana partì alla volta di Londra con vari giorni di anticipo, per acclimatarsi e svolgere propaganda in loco. Tra i tanti personaggi che furono scomodati per questa operazione, citiamo Guglielmo Marconi, lo scienziato padre della radio, che aveva sangue irlandese nelle vene e da anni viveva in Inghilterra.

Il telegramma dell’ambasciatore Grandi e il commento di Mussolini
Il telegramma dell’ambasciatore Grandi e il commento di Mussolini
Azzurri in allenamento al White Hart Lane, campo del Tottenham
Azzurri in allenamento al White Hart Lane, campo del Tottenham

Un set di fotografie originali testimoniano del gran daffare della comitiva azzurra per impressionare i britannici e dare loro la sensazione di una “intesa  cordiale” fra il regime monarchico-fascista e la corona d’Inghilterra: gli allenamenti al White Hart, casa del Tottenham di cui videro anche un match di campionato; le foto all’Ambasciata con Dino Grandi; le istantanee allegre dal barbiere (un classico per tutti i campioni sportivi italiani nelle terre anglofone); le passeggiate per le strade di Londra con i garofani rossi all’occhiello a celebrazione del “giorno dell’Armistizio”, festa patriottica molto sentita. Voglio dire: c’era ancora quel legame di aver combattuto una lunga guerra insieme contro i tedeschi, e la sfida di Highbury si rivestì di questo secondo significato: in competizione sì, ma con la porta aperta al dialogo. Dagli archivi emerge che fu Mussolini stesso ad accennare al test-match col ministro degli esteri Simon in visita a Roma. Inghilterra-Italia di football fu, quindi, una delle carte servite sul tavolo per impedire quell’asse Berlino-Roma che poi si verificò. La diplomazia del football stava perfettamente nelle corde degli inglesi. Se ti concedevano l’onore di batterti alla pari con loro su un “pitch”, si trattasse di cricket, rugby o soccer, voleva dire che tutto era possibile.

Questa cosa è stata dimenticata, le generazioni attuali non la percepiscono più. Ma, ad esempio nel maggio del 1948, quando i bianchi leoni scesero a Torino e ci schiantarono 4-0, l’accettazione stessa della partita fu la prima mano tesa agli ex nemici. Per contro, non dimentichiamoci del disprezzo da sempre provato dalle popolazioni delle isole britanniche per il “tipo latino”, valutato infingardo, egoista, vanitoso e di bassi sentimenti, incapace di fair play per costituzione mentale. Tutto questo patrimonio di cliché si palesò nella vignetta che fece furore alla vigilia dello scontro: gli undici footballers di Mussolini tutti bruni e addobbati con baffi alla messicana, da emigranti poveri dell’Ottocento. La risposta di Vaccaro fu immediata: ordinò la rasatura del viso ai componenti della squadra, nessuno escluso; così che gli azzurri si presentassero con un profilo da legionari romani, e non da camerieri d’albergo o gestori di ristoranti. In sostanza, una squadra di Bombers!

Una delle numerose vignette buone per dileggiare gli ospiti
Una delle numerose vignette buone per dileggiare gli ospiti

Il carteggio del Ministero ci rivela i retroscena della meticolosa “costruzione” del match. In un appunto, siglato dalla “M” del duce e da un suo clamoroso “niente”, Grandi raccomanda espressamente di dire al centromediano Monti di giocare meno duro del solito. Il dossier contiene la rassegna dei giornali inglesi, che furono micidiali e cattivi, prima e dopo il match. “Gli abbiamo dato una lezione di calcio… non meritavano neppure di venire qui, scorretti come sono, i cosiddetti campioni del mondo” – questo il tono generale. Con disegnini sarcastici e allusioni; oppure anche no, parole molto esplicite, del genere che oggi troveremmo razziste tout court.

Ma andiamo ad illustrare la partita. Che fu drammatica veramente, in specie per il grado di violenza gratuita; dura e scrocchiante come difficilmente potrà esserlo domenica. (Per fortuna). Nella nebbia, col rombo in sottofondo di cinquantamila voci sul temutissimo terreno dell’Arsenal, la squadra di club più famosa da quelle parti, inventrice della rivoluzionaria tattica “WM”, i ventidue giocatori lottarono dal primo all’ultimo secondo. E alla fine molti di loro avevano il biglietto prenotato per un letto d’ospedale, un po’ come in certe scene finali dei film della serie “Rocky”. Non sto scherzando. Ci fu un azzurro che in punto di morte chiese a Pozzo, mentre spirava proprio, se pensava che si fosse battuto da uomo ad Highbury. Il commissario due volte campione del mondo, nonché olimpionico a Berlino, gli disse di sì, gli carezzò paternamente la guancia, sorridendo, e quello volò contento in paradiso.

Ho detto del “problema” Luis Monti. Il trentacinquenne argentino picchiava sempre i danubiani ma, a parere di Pozzo, per il resto era “corretto”. Monti svolgeva il ruolo di centromediano, quindi il perno del meccanismo del Metodo, in pratica il Jorginho d’allora. Gli inglesi calcolarono bene di metterlo fuori questione da subito. Un’entrata assassina di Drake, il Kane di quei giorni, procurò la frattura dell’alluce del piede destro. Monti non uscì, per non lasciare in minoranza i compagni, le sostituzioni non essendo previste. Come conseguenza, l’Italia disputò in dieci l’intero match, pure se solo nell’intervallo il ferito venne portato all’ospedale. Nei primi minuti, i nostri si trovarono così scaraventati all’inferno: un rigore dopo pochi secondi parato da Ceresoli, due reti dell’ala sinistra Brook, di testa e su punizione; quindi il formidabile Drake che colpiva, libero dalla marcatura. Tre a zero e si stava al quarto d’ora!

Nell’intervallo, Pozzo fece il suo discorsetto ai ragazzi, ammutoliti e bianchi di rabbia. Attilio Ferraris, il romanino nominato capitano e spostato a ‘centerhalf’, condensò la cosa con una frase delle sue: “Non si preoccupi, mister, ora torniamo dentro e li scucimo!

Le cronache, specie quelle britanniche, narrano che il secondo tempo degli italiani fu di autentico delirio agonistico. Ferraris e i difensori Allemandi e Monzeglio picchiarono come ossessi. Era la VENDETTA per quanto accaduto nei primi 45’. Gli azzurri si riportarono sotto con due reti di Meazza e sfiorarono il pareggio nel finale.

Un momento della Battaglia
Un momento della Battaglia
La stampa Italiana
La stampa Italiana

Il radiocronista Nicolò Carosio diede ai milioni di suoi compatrioti all’ascolto l’idea di un dominio assoluto, e di come gli avversari non avessero per nulla meritato la vittoria; per cui la stampa di regime capovolse la frittata trasformando il 2 a 3 in un successo morale. L’indomito Ferraris IV divenne per tutti “il leone di Highbury”: quando morì, su un campetto di pallone una quindicina di anni dopo, Pozzo andò a piangere sulla sua tomba al Verano. Gli inglesi parlarono, invece, di una partita di football mutata in una rissa selvaggia di strada. E mostrarono il bollettino di guerra: il capitano Hapgood uscito col naso rotto, Brook col braccio incrinato, Bowden con la caviglia gonfia, Drake con la gamba destra ricoperta di ferite, Barker con la mano sinistra fasciata, Copping bendato dal ginocchio all’anca. Pozzo, nei suoi ricordi, afferma che l’intervento di Drake su Monti non solo era stato intenzionale, ma addirittura suggerito a un livello politico. La verità, ovviamente, galleggia nel mezzo. E comunque Mussolini dovette, per il momento, rinunciare alla soddisfazione di presentare al mondo la superiorità del sistema fascista sulla rivale “demoplutocratica”.

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Questi sono gli inglesi quando li tocchi sul nervo scoperto del gioco bellico del quale rivendicano orgogliosamente l’invenzione. Diventano implacabili e smettono di ragionare; riaffiora dal profondo la barbarie. Motivo per cui non speriamo nel “fair play”, domenica sera a Wembley. Sicuri nel loro tempio, ricorreranno a ogni espediente per sacrificarci agli antichi dei celtici di cui si riconoscono figli. L’immenso stadio col grande arco diventerà, nel frastuono delle grida generate dalla birra che scorrerà a fiumi, il colosso di legno ripieno di fieno nel quale bruciare il nemico venuto da oriente.