Un secolo dalla nascita di Maestrelli: Marco Impiglia racconta i gemelli Massimo e Maurizio.
Nel giugno del 1998 – all’epoca lavoravo per il Corriere dello Sport diretto da Italo Cucci – svolgendo una rubrica “Alle radici del tifo” andai a trovare Luigi Angelini. Chi era costui? Semplicemente il cassiere-capo della SS Lazio Calcio, che si occupava della vendita dei biglietti addirittura dai primi anni trenta. La sua collezione di aneddoti fu pazzesca, e ancora da qualche parte ho il nastro registrato su cassetta. Ad un certo punto, il vecchio Angelini, persona seria e modesta come ne esistevano una volta, arrivò a parlare della Lazio dello scudetto. Mi disse:
“Wilson, Frustalupi, Martini, Re Cecconi, D’Amico, Chinaglia… i giocatori li conoscevo tutti, perché ero io a preparare le buste dei loro stipendi. C’era sempre qualche problema. Era un cosa incredibile vedere come si attaccassero alla differenza di poche lirette. Soprattutto in comparazione fra di loro! Volevano sapere come, perché… Per evitare tutto questo, Maestrelli controllava personalmente una a una tutte le buste paga dei giocatori. Effettivamente, Tommaso Maestrelli fu, oltre che l’allenatore, un padre di famiglia per la squadra. Specialmente per Chinaglia, che era sotto la sua protezione. La prima busta che Tommaso guardava era sempre quella di Chinaglia…”.
In un altro reportage della stessa serie, che facevo sia per la Lazio che per la Roma in omaggio all’equipollenza strategica seguita dalla testata, mi capitò di intervistare il signor Giolitti, titolare dell’omonimo Bar Gelateria a via Luigi Settembrini. Oggi il Bar Giolitti ai Prati non c’è più, ma cinque lustri fa aveva all’esterno un set di tavolini e sedie di alluminio molto bello, in puro stile “Sixties”.
Il vecchio Giolitti mi rivelò che il Mister della Lazio negli anni ’70 lo si vedeva ogni tanto arrivare con i familiari e ordinare per se stesso una coppa di mantecato. Ma l’abbinamento bianco e azzurro nei gusti era impossibile, per cui optava per un eretico “crema e fragola”. Le battute di occasionali frequentatori romanisti non lo infastidivano più di tanto. Anche lui era stato un giocatore della giallorossa Roma, in effetti.
La notizia dell’intitolazione della Curva Sud a Tommaso Maestrelli e del regalo della “Panchina” – una pregevolissima scultura realizzata da Claudio Nardulli – posizionata accanto alla tomba al cimitero Flaminio, mi hanno indotto a riprendere il filo di questi lontani ricordi. Che si vanno a mescolare ad altri, ancora più lontani e intensi, di un contatto avuto con la famiglia Maestrelli.
Soprattutto i gemelli Maurizio e Massimo. Li conobbi al volgere degli anni ottanta, quando ancora mi stavo laureando e non avevo abbracciato la carriera di giornalista. Il mediatore fu mio fratello, ottimo “calcettaro” e campione d’Italia con l’Hobby Sport di Michele Plastino.
Io, pippa com’ero, militavo nella AC Boccea, squadretta che bazzicava i tornei amatoriali ACLI. Ci capitò di allenarci con una mista nella quale stavano i gemelli e il mio fratellino fenomeno. Più qualcun altro che al pallone dava decisamente del “tu”, mentre noi del Boccea avevamo la determinazione e la speranza de brocchi.
Perdemmo nettamente. Io giostravo davanti alla difesa, da mediano interditore, e avevo di fronte i rudi Maestrelli, più alti e prestanti di me. Ma di quella sfida ricordo solamente che l’unico nostro elemento valido, un over trenta che aveva fatto la trafila nelle giovanili della Roma, “nativo” del quartiere di Primavalle (la malfamata piazza Capecelatro) e piuttosto comunista, si beccò di brutto con Massimo e Maurizio, e per poco non ci scappò la rissa.
“Lazialità”, dunque. Sentimento fortissimo nei due che avevano perduto il padre dieci anni prima, ancora adolescenti. (3) In seguito, entrai nel giro dei Maestrelli, insieme a Stefano Giuliano, figlio di Luigi Giuliano capitano della Roma di Pedro Manfredini, e altra gente a cui capitava di fare provini col Man United; così almeno sentivo dire nello spogliatoio.
Partecipai a qualche partitella di calcio a cinque nel ruolo di portiere. Una volta, intorno al 1992, mi pare sui campi della Corte dei Conti, mi trovai di fronte Marco Materazzi, non ancora lanciato nel professionismo ma lì lì per spiccare il volo. Giocava col Tor di Quinto in Promozione, assieme al fratellino, che era più basso e tarchiato di lui.
“Ticche e tocche e ticche e tacche, risolviamo sempre tutto noi!” – si vantavano, credo correttamente, i due teen-ager funamboli. Sotto una pioggia furiosa, che a mala pena scorgevo la palla zigzagare veloce tra gli schizzi sull’erba sintetica, riuscii a non farlo segnare. E non avete assolutamente idea della pesantezza delle bombe che il futuro campione del mondo mi scagliò addosso, quella sera sotto il temporale: un tiro da sette, otto metri, che ebbi l’ardire di bloccare al petto, mi spostò letteralmente all’indietro! Il simpaticissimo giornalista Massimo Tecca, anche lui della partita nonostante l’evidente goffaggine, si scansò dalla traiettoria con destrezza da torero.
Come portiere di calcetto e calciotto giocai per qualche tempo, piuttosto sporadicamente a dire il vero, nel gruppo dei gemelli Maestrelli. Che ad osservarli da vicino mi sembravano, fisicamente e caratterialmente, più olandesi che latini. Soprattutto, mi colpiva la lealtà e la dolcezza dei due ragazzi. C’era in loro una gravità inusuale per quell’età, che proveniva dal trauma di essere rimasti orfani di cotanto padre.
Una umanità visibile nel modo di essere, nell’educazione e nella modestia mai dimenticate neppure per un istante, nella generosità d’animo che, per uno strano effetto Dr. Jekyll e Mr. Hyde, si trasformava in irruenza guerriera una volta che calcavano il rettangolo verde con gli scarpini ai piedi. In Maurizio la “triste dolcezza” era nettissima, quasi una innaturale “saudade”.
E immagino che questo suo temperamento, unito alla trasparente onestà, non l’abbia aiutato allorché intraprese la carriera di procuratore. Ostacolato, come candidamente confessava, dalle cricche con le quali doveva confrontarsi. Ma fece in tempo a far firmare il primo contratto da professionista, col Marsala in Serie C, all’amico Marco Materazzi.
Maurizio se ne è andato undici anni fa. Non mi presentai al funerale: avevo perso i contatti dai tempi del mio divorzio nella stagione del secondo scudetto laziale, quando sua moglie Monia Materazzi mi aveva dato utilissimi consigli.
Nel momento in cui li perdo i contatti, mi piace rimanere col ricordo della gioventù sempiterna degli amici. Preferisco non rivederli invecchiati, magari perfino mutati. Imbruttiti. Un mio vezzo, stupido e forse codardo, tipico di chi soffre della sindrome di Peter Pan.
I gemelli Maestrelli li ho davanti belli e puliti come erano. Non cambieranno più.
In ogni modo, dedico a Maurizio questa mia “panchina” del Maestro Tommaso. L’Inattingibile. Il Glorioso. Il ricordo del giorno celeste dello scudetto del ‘74, quando, da maturando delle medie all’Istituto pubblico Col di Lana (la sede della Lazio stava di fronte alla scuola, accanto al Bar Vanni), sedevo sugli spalti a gioire con gli ottantamila dell’Olimpico in festa.
In una Roma che, giusto in quella stagione agonistica, sperimentava lo straniamento della “Austerity”. Per cui si andava allo stadio a piedi oppure in bicicletta, il ponte Duca d’Aosta intasato di pellegrini in marcia, come se ad ogni santa domenica si celebrasse il giubileo del pallone di cuoio a scacchi bianchi e neri.
Speriamo che non ci tocchi anche ora, alla ripresa del campionato dopo i Mondiali disputati dagli altri nel deserto, una scena del genere. Visto che una nuova Austerity, di marca russa e non araba, si sta affacciando alla finestra.