In copertina la casina dell’allenatore al Testaccio nel 1929. Come si vede, lo stemma della ASR non aveva alcun fascio inscritto, a differenza della Lazio.
La volta scorsa abbiamo stabilito che la Lazio si fascistizzò alquanto. Ebbe un dirigente e protettore politico che ricopriva i ruoli di segretario del CONI e presidente della Federcalcio (Vaccaro), giocava allo Stadio del Partito, due dei tre figli riconosciuti dal duce, Vittorio e Bruno, erano accesi tifosi biancazzurri. E, se non vi basta, già dal 1928 Benito Mussolini accettò la tessera di socio vitalizio della SS Lazio, che si affrettò a inserire il fascio littorio nel suo stemma in sostituzione dell’aquila.
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Gli attaccanti Mascheroni e Subinaghi nel 1938-39 con una maglia che reca uno scudo sociale di nuova fattura. Come potete notare, nello stesso periodo la Lazio (Gipo Viani) mostrava il fascio a fianco dello stemma. |
Ma la AS Roma? Come si comportò la Roma? Che rapporti ebbe con Mussolini e il fascismo?
Cominciamo col dire che la ASR nacque per volontà delle gerarchie fasciste. Mentre la Lazio (e qui parliamo delle due polisportive), sorgendo in era liberale, dovette arrangiarsi a divenire fascista un po’ come tutto il resto del Paese, la Roma, al contrario, si può dire che lanciò i primi vagiti al cielo eterno dell’Urbe con la camicia nera addosso. La storia è troppo conosciuta, perché io stia qui a ripetervela. L’abruzzese Italo Foschi si mise nella zucca l’idea di creare nella Capitale una squadra che potesse competere con le città del nord. Ci riuscì benissimo, giacché nella stagione 1930-31 la Juve fu battura 5 a 0 al Campo Testaccio e tremò fino all’ultimo. In uno dei prossimi appuntamenti, vi racconterò la storia della vera data di nascita della “Maggica”, che non è affatto il 7 giugno 1927. In realtà, la “costruzione della Roma” (per citare palindromicamente una bella canzone di Ivano Fossati) ebbe un iter che più fascista non si può.
E però, e però…
Mi sussurrava sul registratore un tifoso testaccino, tanti anni fa, la voce resa roca dal fumo e gli occhi lacrimosi ma ancora appassionati: “Marco, noi romanisti eravamo mezzi socialisti nell’anima perché la Roma giocava al Testaccio che era un quartiere industriale con una tradizione anarchica non da poco.” E me lo confermava Amedeo Amadei, nei giorni in cui scorrazzavo con lui in giro per Frascati per scrivere la sua biografia: “Lo sai no? La Lazio era pariolina, la società dei signori, e la Roma era del popolo. Quando ero bambino, partivo da Frascati e prendevo posto sulle panche della gradinata che stava davanti al camposanto degli inglesi. Lì ci andava la gente che non aveva quattrini, i tifosi più caldi, quelli che lavoravano al Mattatoio e arrivavano ancora sporchi dei sacchi di juta che si caricavano sulle spalle”.
La busta e la lettera indirizzata da Renato Sacerdoti al duce nel 1928, col fine di invitarlo nella sede sociale ad un ricevimento con le due nazionali di Italia e Ungheria. Mussolini rispose picche. Archivio Centrale dello Stato di Roma.
Davanti al “fornaretto”, uno degli incontestabili re di Roma, c’è poco da eccepire. Ma si può argomentare su come la ASR, nata “fascistissima” e con molti tifosi che tenevano tessere aliene nascoste da qualche parte, sia entrata nello spirito dei tempi. Balza agli occhi una differenza: mentre i biancocelesti si cucirono subito il fascio littorio sulle maglie, i giallorossi no, lo fecero solo quando dal Testaccio passarono allo Stadio del Partito, nei primi anni ’40. Il monogramma elegante, l’ASR intrecciato in oro, lo vediamo campeggiare sempre. Sparì nel 1942 quando entrò lo “scudetto”, che all’epoca non aveva il tricolore ma era costituito dallo stemma sabaudo col fascio a fianco. Lo stesso dicasi per le carte intestate, dove il fascio appare tardi, intorno al 1941. Mentre sulle tessere di abbonamento un fascetto piccolino, e quasi caruccio, s’inserisce presto, già nel 1929-30.
C’è un’eccezione a quanto ho detto. Allorché i “lupi” si recavano in tournée all’estero, indossavano una maglia con lo stemma nazionale sul cuore. Nella stagione 1933-34 comparve una camicia di seta nera, che divenne lo standard per le partite disputate lontano dalla tana. Oltre a Bernardini, Ferraris IV e Masetti, uno degli eroi di quella Roma quasi mitica era Enrique Guaita, attaccante rioplatense dal fisico raccolto e potente. Guaita segnò caterve di gol e, a un dato momento, capito con chi avevano a che fare, i tifosi gli affibbiarono un nome letterario: “Corsaro Nero”.
Peccato che, dopo aver contribuito al trionfo pazzesco nel Mondiale del ‘34, Guaita se ne ritornò quatto quatto da dove era venuto, per sfuggire, insieme agli altri due “oriundi” Scopelli e Stagnaro, a una supposta, ma improbabile, chiamata alle armi nella Campagna d’Africa. Fu un grosso scandalo. Il Corriere dello Sport, cioè Il Littoriale, li definì “pecore travestite da leoni”. Mussolini mandò una nota al segretario del Partito, il fido Starace, affinché fosse vietato, di lì in avanti, agli oriundi sudamericani di militare in club italiani. La nota sta ancora bella depositata in un contenitore dell’Archivio Centrale di Stato, con tanto di “M” incazzosa del duce. Che tuttavia, smaltita la rabbia, ci ripensò (gli oriundi erano indispensabili per la nazionale…), diede il contrordine e non se ne fece più nulla.
E qui siamo arrivati al “capoccione”. Era romanista? Se intendete un’amante dell’Urbe, forse sì, per lo meno a un livello “imperiale”. Tutta bianca di marmo e travertino, la voleva Lui. (C’era pure una rivista, dal titolo “Lui”). E fu questo il motivo per cui Campo Testaccio venne buttato giù undici anni dopo la sua costruzione. La storiella risale alla primavera del 1940, poco prima che Mussolini annunciasse dal balcone che muovevamo guerra a francesi e inglesi. Il problema del “Testaccio” stava nella sua prossimità col cimitero acattolico. Il sacro toccava il profano. Bastava che un “lupo” sparasse la palla un tantinello alto, e quella finiva a rotolare tra le lapidi dei poeti Keats e Shelley. Per l’ambasciata britannica, ciò era “absolutely horrible!” Un bel giorno, Mussolini si trovò a transitare in direzione della via Ostiense. Gli si offerse la vista di Campo Testaccio, uno scatolone un po’ ibrido, metà in legno e metà in cemento, che non aveva nulla di augusteo. Il duce storse la bocca, si ricordò delle lamentele inglesi, ordinò di raderlo al suolo: ci avrebbero fatto i giardinetti per i balilla. Molto meglio! Il 21 ottobre del 1940, il sacrario romanista non esisteva più.
Chiaro che a Mussolini non batteva forte il cardio per la AS Roma. Assisteva di rado ai derby e a qualche incontro della Lazio, più che altro per fare compagnia ai figli, almeno fino a che furono piccoli, poi smise. E una volta gli capitò di scherzare, con un gerarca sfegatato romanista a Palazzo Venezia, che i giallorossi avrebbero acciuffato lo scudetto solo quando il fascismo sarebbe caduto (cioè mai, e invece accadde davvero: scudetto nel 1942, defenestrazione nel 1943). Verissima è, invece, la vicenda relativa allo scudetto del 1942 facilitato dalle gerarchie. O meglio: è vero che ci furono manovre, ma non risponde alla realtà delle cose che la Roma vinse il titolo per volontà espressa del duce. Esistono carte d’archivio che lo provano. Qui ve ne mostro alcune.
Tre eccezionali documenti d’archivio che avvalorano le manovre della AS Roma, perpetrate tramite il direttore sportivo Monzeglio, per avere un vantaggio sulle dirette concorrenti nel campionato 1941-42. Mussolini diede disposizioni di agire imparzialmente, ma alla fine qualcosa di buono Eraldo Monzeglio la ottenne.
Anche questa dello “Scudetto del Duce”, me la raccontò per bene Amadei. Cito dal libro dedicato al grandissimo Amedeo:
Stava per cominciare il secondo campionato di guerra e, nella tarda estate del 1941, la tifoseria romanista non nutriva grandi speranze. Il campionato 1941-42 si distingueva dai precedenti perché molti giocatori erano stati richiamati come militari o stavano già al fronte. I dirigenti della Roma, da un anno circa, avevano tentato tutte le vie per evitare la partenza dei migliori elementi. Per tradizione, una delle scelte possibili era quella di distaccare gli atleti presso il II Reggimento Bersaglieri, di stanza a Trastevere nella caserma S. Francesco a Ripa. Il 10 giugno del 1940 Amadei aveva assistito, vestito da bersagliere e mescolato alla folla di piazza Venezia, alla dichiarazione di guerra di Benito Mussolini; il discorso gli aveva fatto accapponare la pelle. Una volta chiamato a prestare il servizio militare (la ferma durava due anni), mettere il cappello piumato era stato quasi automatico. Con lui erano entrati Borsetti, Pantò, Coscia e Jacobini, e poi i nuovi acquisti Ippoliti e Andreoli. Al II Bersaglieri, costituito per il 50% da romani, era un continuo partire per la Grecia e la Russia. Fortunatamente, il colonnello adibito al comando, Antonini si chiamava, era un buon sportivo e tifoso romanista; egli aveva posto sotto la sua ala protettrice i sette “lupi” e non solo: la Compagnia sembrava il deposito della Roma e della Lazio e di tutte le società calcistiche centromeridionali. La seconda mossa decisiva la fece Bazzini, a inizio settembre.
Il presidente pregò Monzeglio, rientrato col ruolo di direttore tecnico, di adoperarsi per avvicinare alla Capitale cinque giocatori impegnati sotto le armi nel nord Italia. Si trattava del fante Cappellini, del caporalmaggiore Acerbi e dei genieri Donati, De Grassi e Benedetti. Monzeglio, che era di casa a Villa Torlonia, fece arrivare l’istanza a Mussolini in persona. Questi rispose con un diniego, motivandolo col fatto che gli era stata sottoposta altra questione similare (probabilmente dalla Lazio) e che comunque aveva disposto affinché “nessun atleta-militare dovesse essere messo a disposizione, sia pure temporaneamente, per il giuoco del calcio”. Musso disse di no, ma la porta rimase socchiusa. L’ostacolo venne superato tramite un pezzo grosso del Ministero della Guerra. Ai primi di dicembre, anche l’ultimo giocatore fuori sede, il terzino Brunella, fu trasferito a Roma. In tal modo, grazie al lavoro sotterraneo di Monzeglio, quasi nessuna pedina venne perduta; tanto che uno dei pochi della ASR a ricevere la cartolina gialla fu il massaggiatore Cerretti, volontario per la campagna di Russia proprio nell’anno dello scudetto.
Allora, cari “Ultras”, immagino che lo sappiate ma, se c’era un giocatore fascista nella Roma, questo era Eraldo Monzeglio. Il terzino della nazionale arrivò nelle file giallorosse nell’estate del 1935, comprato dal Bologna. Era noto per essere un sincero e incondizionato ammiratore del duce: i saluti romani che faceva lui al fischio d’inizio erano più perfetti di quelli dei suoi colleghi. Se la cavava molto bene anche a tennis. Un giorno, Mussolini, ricordandosi di un episodio spiacevole occorsogli al Circolo Parioli, decise di imparare quello strano gioco inglese. Come mi raccontava Lino Cascioli, da quel momento nessuno accennò in sua presenza al “tennis pallacorda” come a uno sport che, per praticarlo, bisognava avere l’erre moscia; pure un provincialotto cinquantenne, come il dittatore dell’Italia fascista, poteva scendere a rete e chiudere in scioltezza la volée. Il
duce chiamò a Villa Torlonia, dove abitava con la moglie Rachele, Monzeglio, felicissimo di insegnare il dritto e il rovescio a Bruno e Vittorio e al “capo” in persona. Un’altra volta vi dirò di come Mussolini giocava a tennis. Fatto sta che Monzeglio, molto presto, convocò il compagno di squadra Fulvio Bernardini, con la scusa che c’era bisogno di un quarto per il doppio. In realtà, la vicenda era più complessa. Si trattava di cancellare un reato di lesa maestà. Il capitano della Roma, infatti, stava passando un brutto quarto d’ora per via di un lieve incidente avvenuto tra la sua fiammante Augusta e l’Astura blu del capo del Governo. Una “tamponata” casuale su una curva di via IV Novembre, il grido “Criminale!!” partito dal testone calvo sporto dal finestrino, la sua targa annotata dall’autista. Conseguenze dirette: visitina all’ora di cena di due distinti agenti dell’OVRA e ritiro immediato della patente. Proprio per recuperare la licenza di guida, Monzeglio invitò l’amico al tennis. Il programma era stato calibrato con cura:
Eraldo e Fulvio contro Mussolini e Flavio Aliotti, giocatore di prima categoria e quindi tra i migliori d’Italia. Inutile dirvi chi vinse. Molti anni dopo, fu lo stesso Bernardini a riportare, in un articolo di giornale, l’episodio rimasto inedito: «Ero comprensibilmente emozionato. Mi domandavo come avrei dovuto presentarmi quando fu lo stesso Mussolini a venirmi incontro e, un po’ serio e un po’ scherzando, mi chiese: Allora, avete imparato finalmente a guidare l’automobile?» Fu questione di giorni se non di ore: un agente in borghese tornò a bussare a casa Bernardini, un elegante appartamento in via Massimo d’Azeglio 33, per notificare la comunicazione della Questura: “Egregio dottore, la restituzione della patente deve intendersi definitiva.” Mussolini era romanista? No, ma perdonava facilmente chi perdeva a tennis con lui.