La quarta parte dell’analisi di Marco Impiglia della competizione a cinque cerchi olimpici di Roma nel 1960. Prima tappa per l’avvicendamento a Tokio 2020
Il termine doping deriva dalla parola olandese “dop”. Apparve per la prima volta in un dizionario inglese del 1889 per descrivere una mistura di oppio usata nelle corse dei cavalli. In Italia, nel 1960 i mass-media utilizzavano “drogaggio”, anche se a livello scientifico la parola doping era quella in uso. Ad esempio, nell’estate del 1961 la Lega Nazionale Calcio sponsorizzò un libello del prof. Gerardo Ottani dal titolo: “Doping e calcio professionistico”.
Ma era soprattutto nel ciclismo che non si scherzava. La droga classica del ciclista era la simpamina rinforzata e super-dosata: un eccitante anfetaminico pericoloso, che non aveva nulla a che vedere con la preistorica “bomba” cara a Bartali e a Coppi.
Di quest’ultimo (che, ricordiamolo, morì di malaria al principio dell’anno olimpico), circolava un aneddoto; e cioè che il giorno che aveva visto Ercole Baldini demolire il primato dell’ora di Anquetil, aveva esclamato: “Se ai miei tempi ci fosse stata la chimica di oggi, i 50 all’ora non me li avrebbe levati nessuno!”
Le iniezioni endovenose e le pastiglie, le tavolette da masticare e i beveraggi, che medici e massaggiatori propinavano agli atleti, includevano sostanze variamente catalogate: amine psicotoniche, glucosio, destrosio,
analettici cardiorespiratori di sintesi o naturali, analettici cardiocircolatori, estratti epatici e di corteccia surrenale, cortisone, sedativi e miorilassanti, farmaci dinamogeni e robette da dosare attentamente, come l’acido glutammico, l’arsenico e la stricnina.
Molte di queste sostanze innestavano un aumento del calore del corpo, della sudorazione e della sete. Nell’ultimo Giro d’Italia, a un paio di mesi dalle Olimpiadi, i cronisti notarono gli insoliti assalti alle fontane dei girini; un fenomeno mai visto prima in quella forma furiosa, indizio certo che i corridori usavano prodotti chimici per sostentarsi. E in quel Giro maglia rosa era stato Venturelli, prima di cadere vittima di una super-bomba. Si stava, dunque, ai livelli di guardia.
Nessuna legge proibiva il doping a scopi agonistici. Nessuna federazione, internazionale o nazionale, si era mossa per arginare il fenomeno. Il CIO lo ignorava per quel che riguardava le sue feste atletiche estive e invernali.
La brutta fine del danese Jensen nella prova a inseguimento a squadre fu il risultato dell’impreparazione dello staff medico danese (tutto il contrario di quanto avvenuto con Eriksen agli Europei) e della criminale scelta della data per la gara del Comitato Organizzatore Olimpico.
Consideriamo che la settimana tra il 25 e il 31 agosto 1960 registrò le temperature più alte dell’anno a Roma, comprese tra i 34 e i 38 gradi all’ombra. La 100 km a squadre, per consentire agli italiani di vincere la prima medaglia d’oro in assoluto dell’Olimpiade, venne fissata per il 26 agosto, con partenza scaglionata dalle ore 9 a viale dell’Oceano Pacifico: tre giri di un tracciato ricavato sulla Cristoforo Colombo.
Calcolando un tempo, per i primi arrivati, di due ore e un quarto o due ore e venti al massimo, si sapeva che i corridori sarebbero transitati sotto l’ultimo traguardo in un orario compreso tra le undici e mezza e mezzogiorno, nel pieno della calura.
Questa fu la prima causa della morte di Jensen: il cieco nazionalismo e l’incoscienza di chi aveva programmato l’orario della gara, che sarebbe stato logico posporre alle diciotto, come fu fatto per la maratona. Ma no: il quartetto azzurro si era allenato al caldo e doveva godere di quel vantaggio sulle formazioni nordiche!
Era la prima volta che la 100 km “Team Time Trial” si svolgeva alle Olimpiadi nella formula della corsa a cronometro. Dei 35 team iscritti 32 si presentarono al via. La squadra danese, una delle favorite, contava su Knud Enemark Jensen, Vagn Bangsborg, Niels Baunsoe e Jorgen Breithold Jorgensen. Ho detto del caldo, che fu il primo assassino di Jensen. Quando i quattro danesi partirono, per terzultimi alle 9 e 32, il termometro già stava molto oltre i 30 gradi.
I danesi transitarono al primo giro in quarta posizione, col tempo di 44 e 31. All’inizio del secondo giro, Jorgensen e Jensen si sentirono male, oppressi dal calore insopportabile: gambe dure e sensazione di svenire, la voglia di abbandonare. Jorgensen perse contatto lasciando i compagni al loro destino; essendosi fermato nei pressi della zona di partenza/arrivo, fu raccolto da un’ambulanza e ricoverato al vicino Sant’Eugenio. Il regolamento permetteva di chiudere la gara in tre, e a quel punto spettò a Jensen di tenere duro.
Anche Bansborg si lamentava di avere pizzichi alle gambe. L’unico che si sentiva a posto era Baunsoe, che si pose alla testa del trio a tirare forte. Al giro di boa di Castelfusano, uno spettatore gli gridò in inglese che avevano solo dieci secondi di distacco dai sovietici in terza posizione, anche loro rimasti in tre. Baunsoe si voltò verso Bangsborg e Jensen; chi stava peggio era Jensen, che però gli disse che per il bronzo poteva stringere i denti. Ma a otto chilometri dall’arrivo, poco prima di transitare davanti alla borgata di Vitinia, Jensen gridò: “Ho le vertigini!” Si vedeva che stava malissimo. Ancora tre chilometri e, quasi all’altezza del raccordo anulare, Jensen entrò in uno stato di semi-coscienza. Perse una decina di metri, vacillando sulla bicicletta. Baunsoe rallentò e l’acchiappò quasi per la collottola. Bangsborg gli spruzzò dell’acqua sul viso. “Sei OK?”, chiese Baunsoe, e Jensen gli fece segno di sì. Un attimo dopo, perse conoscenza.
Qui iniziò la fase più drammatica. Una foto pubblicata dal tabloid danese Ekstra Bladet mostra Bangsborg e Baunsoe che tentano di sorreggere Jensen per la maglietta affiancandolo da entrambi i lati, pochi istanti prima del tracollo. In un’altra foto, pubblicata come le altre su tutti i giornali del mondo, Jensen rovina sul ciglio della strada finendo a testa in giù, senza caschetto, sull’asfalto con la bici piegata sotto di lui. La didascalia recita: «Knud Enemark cade mentre Niels Baunsoe guarda orripilato».
Sulla rivista americana Life la spiegazione è più esauriente: «In pieno collasso, Jensen colpisce l’asfalto della superstrada Cristoforo Colombo, mentre il compagno Baunsoe gira la bici per aiutarlo.» In altre due immagini, si vede un medico di gara che porta di peso Jensen ai bordi della strada, adagiandolo sulla terra colma di erbacce secche; con uno stetoscopio controlla le pulsazioni all’atleta esanime. Era successo che il team manager danese, Preben Jensen, accorgendosi del problema aveva voltato la macchina allertando un’ambulanza, superata dai tre ciclisti da appena 400 metri. L’ambulanza aveva portato sul posto l’ufficiale medico, il dottor Alcini, che aveva prestato i primi soccorsi all’atleta. Fino a questo punto, le cose erano state fatte bene dal servizio medico, ma ecco i casini, l’inferno della “disorganizzazione italiana” tanto paventata all’estero!
La terribile sequenza fotografica pubblicata dal settimanale americano Life il 12 settembre 1960 |
L’ambulanza raggiunse in pochi minuti la zona del traguardo, dalle parti del velodromo, ma invece di proseguire a tutta birra verso l’ospedale, Jensen fu depositato in una tenda militare della Croce Rossa. Là rimase per quasi due ore, da mezzogiorno meno un quarto alle una e quaranta, assistito dal personale paramedico. Due lunghe ore in un angusto locale con una temperatura interna prossima ai cinquanta gradi.
Centoventi minuti che determinarono l’aggravamento e il triste destino del ventitreenne muratore di Aarhus. Solo a quasi tre ore dal collasso, avvenuto indicativamente tra le 11,15 e le 11,30 (in base ai miei calcoli: l’ora fornita da alcuni giornali italiani, le 12 e 30, essendo fuorviante), Jensen fu trasportato al Sant’Eugenio. Il direttore, il prof. Albert Oberholtzer, un urologo altoatesino, se lo vide arrivare alle 13 e 47 in stato di confusione mentale, che parlava a vanvera, spaventato e con gli occhi sbarrati, la bocca secca e, nonostante il febbrone, non una goccia di sudore sull’epidermide: sintomi lampanti della disidratazione avanzata.
Gli somministrò calmanti per i centri respiratori ed eccitanti per sostenere il cuore; lo pose sotto la tenda ad ossigeno. Alle 15 e 25 Jensen morì per «lesione cerebrale provocata da un’insolazione con conseguente emorragia delle meningi» – secondo quanto dichiarò ai giornalisti Oberholtzer. Nel suo referto riguardante lo stato dell’atleta al momento del ricovero, scrisse: «Ematoma alla regione parietale destra con grave stato di agitazione da colpo di sole; febbre a 40 gradi e ferite lacero-contuse varie.» Oberholtzer non accennò a un’ipotesi di droga per iscritto, ma esternò le sue preoccupazioni a chi gli stava vicino.
La voce del danese morto a causa di una ‘bomba’ viaggiò veloce con radio Olimpia. Saputo della tragedia, si recarono sul posto il console di Danimarca, Frederik Brejen, alcuni esponenti del comitato medico-scientifico e autorità sportive.
A due ore dal decesso, la salma di Jensen conservava una temperatura di 42 gradi; il mattino seguente fu portata all’Istituto di Medicina Legale dell’Università.
Cinque giorni dopo, il presidente del C. O. Giulio Andreotti, insieme al suo braccio destro Marcello Garroni, all’ambasciatore danese e al presidente e al capo-missione della delegazione olimpica danese, davanti alla bara in procinto di lasciare per via aerea Roma, rivolse parole di cordoglio a nome del Governo; la sua mano sinistra depose sulla bandiera rossa con la croce bianca una medaglia olimpica d’oro.
I tabloid britannici avevano nel frattempo fatto fuoco e fiamme, chiedendo che l’Olimpiade venisse sospesa, per evitare altre vittime sacrificali nella «fornace di Roma.»
Quel che di grave era accaduto era che i danesi avevano ingoiato pillole di Roniacol, una droga relativamente blanda usata per stimolare la circolazione; tra l’altro, venduta senza prescrizione medica nelle farmacie italiane. La verità si seppe quasi subito, tanto che già il 30 agosto un articolo di Robert Daley, apparso sul NY Herald Tribune, precisava: «L’Italia ha aperto un’indagine sulla morte del giovane ciclista danese nella corsa di 62 miglia alle Olimpiadi. L’investigazione prenderà diverse settimane, ma i risultati sembrano già profilarsi.
A conclusione di una serie di voci e dichiarazioni contraddittorie, è giunta l’ammissione da Copenhagen che Knud Enemark Jensen e i tre suoi compagni hanno preso una droga chiamata Roniacol prima della gara di venerdì scorso.
Il dottor Gunnar Stenaa ha dichiarato oggi che aveva avvertito l’estinto Jensen, e altri membri della squadra olimpica danese di ciclismo, di non usare le pillole di Roniacol perché erano pericolose.
“Non riesco a credere che abbiano ignorato le istruzioni che avevo loro impartito così chiaramente” – ha detto Stenaa, che aveva visitato due volte i ciclisti prima della partenza per Roma. “Avevo spiegato bene che le pillole di Roniacol non dovevano essere usate in nessuna circostanza. Avevo detto chiaro e tondo che erano pericolose per gli esseri umani e che dovevano essere prese soltanto in caso di un ordine dei medici*** (censura, ndA), perché esse mandano via il sangue dal cuore e lo forzano nelle gambe”.
Il dottor Stenaa ha inoltre dichiarato di avere controllato più volte lo stato di salute dei ciclisti prima che partissero alla volta di Roma.»
Ma come proseguì la vicenda “gialla” del ciclista della 100 km a Roma ‘60? Il secondo caso di collasso letale per uso di stimolanti ai Giochi Olimpici dai tempi della maratona del 1912?
Il 24 marzo del 1961 il gabinetto medico-legale italiano produsse uno (scandaloso) rapporto secondo il quale Jensen non aveva assunto farmaci ed era deceduto per la frattura del cranio conseguente alla caduta. Nel 1962 l’editore del Bollettino del CIO pubblicò un articolo con nuovi indizi sulla colpevolezza di Jensen.
Il presidente del Comitato olimpico danese, Leo Fredriksen, rispose con una lettera nella quale sottolineava come il report ufficiale medico-legale spedito in Danimarca dalle autorità governative italiane, contenente i risultati dei test tossicologici e farmacologici condotti, non fosse stato trasmesso a lui ma alla polizia danese, e da questa alla famiglia di Jensen. E che sulla base di quel rapporto la polizia danese aveva deciso di non procedere oltre, in quanto la morte risultava provocata da un «colpo di sole». In seguito, un medico austriaco di nome Ludwig Prokop rivelò in una relazione, durante i Giochi di Monaco 1972, che Oberholtzer gli aveva confessato di avere riscontrato tracce di metanfetamina e di pyrid carbinol e tartrato di nicotile (sostanze base del farmaco svizzero Roniacol) nel corpo di Jensen; dettaglio confermato per telefono da Alvaro Marchiori, il medico che aveva effettuato l’autopsia, ad un altro ricercatore danese.
Negli Archivi Nazionali di Copenhagen la copia del rapporto spedito dall’Italia esiste, ma si tratta solo di nove paginette non interamente tradotte, e quello è l’unico documento originale disponibile sulla vicenda. Che rimane a tutt’oggi un caso irrisolto, a dispetto di una superficiale inchiesta operata dal giornale danese Politiken nel 2001, con la sciocca accusa della morte avvenuta nella tenda e tenuta nascosta dagli italiani!
E consideriamo pure che da un altro rapporto d’epoca, redatto da medici svedesi, emerge che il quartetto svedese perse sei litri di fluidi durante la gara, e che il quartetto danese non aveva scorta sufficiente di borracce sulle bici per non appesantirle troppo.
Questo è forse l’ultimo elemento che mancava per comporre il quadro. Ora io so cosa uccise il povero Jensen 61 anni fa sulla Cristoforo Colombo, in un punto in cui non c’è neppure una lapide a ricordarlo.
E lo sapete anche voi.