Pochi giorni fa, sono andato alla “Nuvola” alla fiera dell’editoria minore, col fine di ritirare un volume massiccio di 500 pagine fitte fitte della Odradek.
Tra sciami ronzanti di scolaresche provviste di cappellino arancione di riconoscimento, e centinaia di stand che fanno riflettere sulle capacità mistificatorie di noi furbi italiani (rilevo una plateale sovrabbondanza di case editrici in rapporto al dato che siamo agli ultimi posti nelle classifiche dei lettori europei), sono riuscito nell’impresa di azzeccare il bancone giusto e ho preso il libro che mi spettava: una raccolta di saggi sulla Roma tra Otto e Novecento che include una mia biografia di Fortunato Ballerini.
L’uomo di sport – inteso come dirigente e organizzatore – più importante che abbia mai avuto la Capitale, e che però, a parte certuni accaniti esegeti della storia della Società Sportiva Lazio, risulta ai più sconosciuto.
La scorsa primavera, con un paio di amici “tombaroli”, mi è capitato di rinvenire la sepoltura, anch’essa mezza abbandonata al Verano tra sporcizia e marmi rotti: il nome sulla lapide spaccato in due come da un fulmine scagliato da Giove Pluvio Romanista.
Carneade! Chi era costui? La domanda di Don Abbondio ci sta perché – ci metto sul piatto una piotta – nove su dieci non ne hanno la più pallida idea. Cominciamo coll’affermare la cosa più ovvia. Se oggi esiste una creatura che si chiama “Lazio”, organismo a natura sociale che raduna migliaia di sportivi attorno a un ideale “biancoceleste”, questo lo si deve quasi esclusivamente all’opera svolta dal nostro illustre personaggio.
Che la raccolse quando l’allora “Podistica” era alla canna del gas e la rifocillò seduta stante con ricostituenti tali che, in capo a tre lustri, era divenuta una reginella.
E non stiamo parlando di pallone, ma di tutto il resto: nuoto, atletica, ginnastica, ciclismo, scherma, bocce, tamburello, escursionismo, gite archeologiche, corsi di lingue, scuola di teatro, tiro con l’arco, party danzanti, letture dantesche, lezioni di arpa e pianoforte, assistenza agli orfani di guerra, scautismo e chi più ne ha più ne metta.
Mes que un club, come si dice.
Epperò, in nome di quella robusta e scanzonata particella giallorossa che si agita in me, scordiamoci di tutto questo; e anche del fatto che col Ballerini alla presidenza, e cioè dal 1904 al 1922, la Lazio trovò i colori del cielo e l’aquila che vi volava in mezzo: la superba “Olimpia” discende da lui, e non dal bersagliere famoso e un tantinello sfigato come si tramanda.
Allontaniamo pure, per motivi di opportunità se no finisce che vi riciclo il saggio, le mille azioni alle quali il funzionario fiorentino del Ministero di Grazia e Giustizia mise mano; tutte riguardanti lo sport romano e nazionale e tutte ad alti livelli (il primo statuto del CONI, nel 1914, lo redasse lui).
Qui mi voglio piuttosto limitare a due aspetti: la sua vena “olimpica” e l’altra ancora più bizzarra, in relazione almeno ai tempi remoti: l’inclinazione “salutista”.
Il Ballerini olimpico
Tutti sappiamo che nell’estate del 1960 Roma ha ospitato la diciassettesima Olimpiade moderna. L’avremmo potuta avere già nel 1908, e l’uomo che si batté per la causa fu per l’appunto Ballerini. La letteratura internazionale tende a liquidare in poche battute il mancato svolgimento a Roma di quella Olimpiade, derivandolo dall’eruzione del Vesuvio dell’aprile 1906 che avrebbe stornato i finanziamenti del governo. In realtà, disponiamo di documentazione inconfutabile che rivela che non è così che è andata: esattamente come è accaduto di recente con la Raggi, siamo stati noi stessi romani, con l’aiuto di milanesi e torinesi, a darci la zappa sui piedi, a rinunciare all’impegno quando all’estero già ci avevano concesso il placet: sì, veniamo tutti giù a Roma, non vediamo l’ora, date una bella spolverata ai monumenti, preparate gli gnocchi!
Ballerini, che quando nel 1902 partì l’iter burocratico era segretario della Federazione Ginnastica, il 20 maggio del 1904 incassò l’assegnazione della quarta edizione dei Giochi e nove mesi dopo accolse alla stazione Termini, assieme ad altri suoi amici aristocratici i cui nomi neanche li faccio perché non vi direbbero nulla, il barone Pierre Fredy de Coubertin. L’uomo che non ha mai profferito le parole “l’importante non è vincere ma partecipare” voleva, assolutamente, che il suo movimento olimpico venisse rilanciato da Roma, dopo le due secchiate fredde prese alle esposizioni mondiali di Parigi 1900 e St. Louis 1904. (Ancora gli storici non riescono a calcolare il numero esatto di prove atletiche che si svolsero alle Olimpiadi numero due e tre, mille leghe lontane nella forma dalle odierne).
Da Termini, a Coubertin lo tradussero in carrozza a Piazza di Siena, per mostrargli la “venue” principale. C’era il re Sciaboletta con lui. Sicuro che ci stava il massone Ballerini nel codazzo di vip, anche se le cronache coeve tacciono.
Dopo il sire sabaudo, Coubertin incontrò, in gran segreto, papa Pio X, prigioniero a Castel Sant’Angelo ma desideroso di vedere una Olimpiade lì sotto casa. Sapete, Pio X fu il primo pontefice ad appoggiare lo sport senza vedere in esso un prodotto del diavolo; e mi pare giusto che ci sia oggi a Roma una fiorente polisportiva a lui intitolata.
Non ci crederete, ma appena il barone olimpico riprese il treno per tornare nella sua dimora parigina, da mezza Italia del nord scoccarono frecciate contro l’idea dell’Olimpiade romana; ché non si avevano i quattrini per farla e, soprattutto, si sarebbe rischiata una figuraccia epica per le scarse qualità atletiche in comparazione.
Un fisiologo torinese, uno scienziato che si chiamava Angelo Mosso, tromboneggiò che prima si doveva curare lo stato infantile dell’educazione fisica nostrana e poi ardire a confrontarsi su tutti i campi con i paesi iperborei. Il sindaco Cruciani Alibrandi, e i suoi colleghi liberali insediati al Campidoglio, capito l’andazzo (il Governo taceva, glissando su ogni richiesta), nonostante una “commissione” tirata su, annunciarono il loro dégagement.
De Coubertin ne prese atto a malincuore e, il 27 gennaio 1906 ad Atene, il CIO pose una barra rossa su Roma per riassegnare la quarta Olimpiade a Londra. L’imperiale London che, subito, costruì un White City Stadium da 70.000 posti di cui 20.000 al coperto, con tanti saluti al papa. Saluti dal re Edoardo VII che, nell’aprile del 1903, aveva visitato la ex Caput Mundi trovandola “a charming town”, primo sovrano d’Inghilterra dai giorni del norreno Canuto il Grande nel 1027.
Il cavalier Ballerini, che aveva speso di tasca sua per sostenere il progetto “Roma 1908” calibrando un ricco programma di discipline da svolgere, a mazzo riposto si indispettì al punto da pubblicare un libello sulle “Olimpiadi abortite”.
Come consolazione, gli diedero la responsabilità amministrativa delle spedizioni azzurre del 1908 e 1912. Così che, a Londra, il quasi sessantenne gentiluomo accompagnò all’ospedale il maratoneta carpigiano Dorando Pietri, collassato al traguardo per l’eccessiva stricnina ingerita.
A Stoccolma, invece, conobbe re Gustavo e vide in azione i “boy scout”, istituendo al ritorno un qualcosa di analogo nei ranghi della Podistica. Per parecchi anni, ricordiamolo, Ballerini tenne l’ufficio di segretario generale della associazione italiana dei giovani esploratori, che ebbe la sua prima sede romana a via Nazionale contando tra gli iscritti il figlio un po’ effemminato del sire, ovvero Umberto.
Ma se andate a chiedere lumi ai gerenti della CNGEI giù a Trastevere, pure loro di Ballerini ne sanno poco o nulla. Archivi vuoti.
Il Ballerini salutista
«Roma Ornamentum Mundi Acclamat. Societatem Abstinentium Longoevorumque Universalem Sanitariam». Vi suggerisce qualcosa? La prima volta che la lessi, lo confesso, a me parve l’iscrizione scalpellata di un manicomio.
Diciamo subito che la R.o.m.a. S.a.l.u.s. non sarebbe mai apparsa sulla terra se i “giovani turchi” della Podistica Lazio non avessero deciso, nell’autunno del 1921, di riporre in soffitta il grande vecchio e le sue idee, non adatte al nuovo corso cui intendevano avviare la polisportiva. Ma non passarono che poche settimane dalla perdita della presidenza della biancoceleste Lazio al recupero del mai abbandonato progetto della “cittadella dello sport”.
Un tentativo che, attraverso la Roma Salus, raggiunse uno stadio superiore a ogni immaginazione, forse più in linea con la cultura germanico-scandinava che con quella latina. Vi posso dire la data esatta della costituzione: 31 maggio 1922. Ballerini fondò la Società astemio longevo universale sanitaria quasi settantenne.
Tuttavia, la riunione preliminare si tenne il 2 gennaio in via Nerva, a casa del professor Rodolfo Lanciani, l’esimio archeologo responsabile dell’acrostico. Condivisero l’iniziativa Giuseppe Bottai (poi gerarca del fascismo) e altre figure di spessore culturale, tra cui un prete, il dantista Luigi Pietrobono, e una donna, Giovanna Dompé. Personaggio, quest’ultimo, davvero singolare: scrittrice, poetessa e seconda italiana a laurearsi in matematica, legata all’ambiente anglosassone capitolino e al movimento delle suffragette.
La Roma Salus fu anche un prodotto del clima di effervescenza che caratterizzò il periodo post-bellico, con bizzarrie sperimentate in tutti i campi del sociale. Si presentò come una «società di educazione fisica, morale e alimentare». Quel che di diverso ebbe fu l’aspetto preminente dell’igiene e della sanità perseguite non solo grazie a una quotidiana attività fisica, ma anche con una speciale attenzione alla nutrizione.
La Roma Salus partì sostanzialmente dal fatto che Ballerini, dal quarantesimo anno in poi, allorché aveva avvertito i primi scricchiolii della “macchina-corpo”, era stato un salutista arrabbiato: amante dei bagni freddi e delle scarpinate in montagna, astemio convinto e praticante un crudismo selettivo; ad esempio, è noto che durante le escursioni servisse a se stesso un pranzo a base di patate “nature”. Nel 1933 spiegò le sue teorie nutrizioniste sul bollettino dell’associazione, sollecitando la curiosità di Luigi Cerchiari, prima firma della rivista La Cucina Italiana. Alcuni stralci ci aiutano a comprendere fino in fondo l’uomo, nonché il senso ultimo della Salus: garantire a chi ci credeva il vigore fisico fino a cent’anni almeno (duecentocinquanta era l’età alla quale gli uomini evoluti del Duemila avrebbero potuto aspirare):
Non fumare, non caffè, non zucchero, non vino né liquori, non sale né olio, né droghe né aceto, non minestre con acqua cotta, non teatri, caffè, salotti, ristoranti chiusi […] Alzarsi col sole, colazione a latte crudo o con frutta, pranzare mezzora dopo mezzodì con questa lista: a) riso al burro poco cotto, sul piatto aprici una o due uova fresche, spremici mezzo limone, mischia e mangia alternando per ogni boccone una forchettata d’insalata fresca senza condirla; b) carne poco arrostita con insalata non condita e con patate poco cotte al forno o a lesso; c) frutta quanta ne vuoi. Non hai bisogno né di pane né di bere ma, in caso, acqua con limone. La sera, cena alle 20, con la stessa lista del mezzogiorno.
Possedendo un’indole pragmatica, Ballerini ad un certo punto non si accontentò più delle conferenze a casa dei soci professori, delle escursioni archeologiche e dei banchetti nei ristoranti. Il 7 febbraio del 1924 prese in affitto dal demanio un terreno di otto ettari nel quartiere Italia (oggi Nomentano), e precisamente in via Chieti, a due passi dal policlinico Umberto I. Vi fece sorgere un centro sportivo-ricreativo consistente in una casina ad un piano circondata da impianti immersi nel verde. Il progetto iniziale prevedeva una pineta per le passeggiate, tre campi da tennis, uno da football, uno da bocce, uno per il tiro a segno, la sede in muratura provvista di portineria, sala di scherma, sala di boxe, sala da tè, cucina, docce, sauna, servizi e spogliatoi.
Il culto di Salus, reinaugurato a distanza di duemila anni dall’originale, ebbe i suoi discepoli per circa tre lustri. Nei primi tempi, provò ad attecchire in altre regioni e perfino all’estero, grazie alle conoscenze internazionali di molti soci; a tale scopo, il sodalizio adottò l’esperanto come lingua ufficiale. Quindi, la Salus si ritirò in una routine tutta romana. Nel settembre del 1932, alla vigilia dei suoi ottant’anni, Ballerini donò il complesso al Dopolavoro, cedendo sì l’amministrazione ma continuando a seguire l’andamento del Circolo. Dal 1933, la Salus acquisì in tal modo lo status di «società di educazione fisica e culturale». Un centro di benessere con campi da tennis, bocce e un recinto per il pattinaggio a rotelle, ma non solo. Con la tessera della Salus in tasca, si poteva partecipare ad escursioni storico-artistiche o di tipo alpino, giocare a calcio, a tamburello e a croquet, tirare di scherma e di boxe oppure fare ginnastica di gruppo. E, ovviamente, ogni cibo veniva servito “nature”. Perché pure Benito Mussolini l’aveva detto: Il naturismo in tutti i paesi è una cosa seria, e tale deve essere anche in Italia!
In realtà, la Salus non fu mai un ritrovo per anziani, tipo bocciofila e balli figurati, e tuttavia l’età media doveva essere piuttosto alta. Negli ultimi anni, Ballerini intese caldeggiare con disposizioni di sua invenzione il regime dietetico che, secondo le tesi sulla «forza vitale» dello svizzero Bircher-Benner, poteva rendere un affare semplice toccare i cento e godere della forma fisica di un ragazzino. Il suo esempio e l’aspetto vigoroso erano di monito. Ancora nell’estate del 1934, in occasione di un congresso internazionale a Cortina d’Ampezzo, insieme ad alcuni delegati stranieri compì ascensioni sulle Dolomiti; e senza rinunciare al rituale tuffo nelle acque del lago di Fedéra, a quota duemila metri.
Ma fu proprio il salutismo spinto e l’idiosincrasia per le medicine a impedirgli di entrare nel club dei centenari. Si spense il 19 settembre 1940, nella casa in cui si era trasferito nel 1932, un villino in via Cherubini non distante dall’ospedale San Filippo Neri. Anche la morte fu in sintonia con lo spirito temerario che animava l’ottuagenario: prese un bagno nel mare di Ostia in pieno inverno, non si curò il raffreddore che si trasformò in polmonite.
E ora il domandone finale: secondo voi, oggi, Fortunato Onorato Ballerini apparterrebbe alla schiera dei “no vax”?
Io un’ideuzza in merito ce l’avrei…