“O la borsa o la vita!”: questo è il dilemma del malcapitato nei confronti del suo rapinatore e questo è anche l’aut aut al quale il dibattito politico e sociale, fin dall’inizio di questa pandemia, non ha ancora saputo rispondere in maniera univoca.
L’intenzione della nascente rubrica Uno studio Americano dice… è quello di aiutare a prendere una posizione in merito ad alcuni interrogativi – tra cui scegliere se mantenere aperte le attività economiche o ‘chiudere tutto’ per salvare vite – della nostra economia e società. O almeno a chiarirne il dibattito. Per compiere questa missione, ci avvarremo di qualificati (purtroppo mai perfetti) studi scientifici, senza distinguo di nazionalità (l’apparente autorevolezza della qualificazione Americano appartiene all’esterofilia insita in molti compatrioti fin dagli anni Trenta, non a questa rubrica). Se domani, con i vostri familiari, amici o colleghi, supporterete la vostra tesi con Uno studio Americano dice…, beh, forse saranno prese scelte meno irrazionali. Mal che vada, apparirete edotti (o spocchiosi, dipende dal tono).
Torniamo all’oggetto. Salvare l’economia o le vite? Con oltre dieci mesi di raccolta dati provenienti da diverse parti del mondo, lo studio Americano realizzato dall’Institute for New Economic Thinking (INET) sostiene che i lockdown rigidi funzionano nel bloccare, o addirittura eliminare, la diffusione del virus. Ma c’è di più: i Paesi, come Cina e Australia, che si sono affrettati per primi ad introdurre misure drastiche di riduzione della pandemia, vivono ora economie in crescita(!). Al contrario, i Paesi che non hanno adottato fin dall’inizio misure ferree (es., Stati Uniti e Svezia), in nome del salvataggio delle loro economie, sono quelli che hanno subito il più importante effetto negativo dal punto di vista economico – in termini di calo del PIL e di spesa per programmi di stimolo economico (es., ristori).
L’Italia si colloca nel mezzo: misure drastiche e abbastanza efficaci all’inizio per poi incentivare ad andare in vacanza d’estate. Nonostante questa drammatica seconda ondata, un nuovo lockdown simile a quello della scorsa primavera non sembra essere possibile date le attuali tensioni sociali – causate, soprattutto, dal ritardo della risposta del Governo alle esigenze di famiglie e imprese. Tuttavia, qualche lezione si può ancora (meglio) implementare. Infatti, l’INET ha anche identificato che:
- La spesa in mascherine di alta qualità (FFP2), campagne pubblicitarie che promuovono l’uso di maschere e il distanziamento sociale, e sussidi per una nuova mobilità che porti ad evitare l’utilizzo di mezzi pubblici, sono gli investimenti che ripagano di più in termini di riduzione del virus;
- I lockdown regionali/locali, se ben supportati da dati in tempo reale, sono più efficaci (e socialmente giusti) rispetto a lockdown nazionali;
- È necessario incoraggiare, anche tramite incentivi economico-finanziari, il remote working (di smart si è percepito ben poco per chi lo pratica dall’inizio della pandemia) soprattutto per quelle professionalità che lavorano in contesti ad ‘alto contatto’ (es., scuole e Università).
Molto di quanto sopra è stato già implementato in Italia. Tuttavia, il ritardo, o discontinuità/incoerenza, nelle risposte e la disorganizzazione non hanno avuto gli effetti sanitari ed economici sperati come per altri Paesi. In termini di contraddizioni, si pensi ad esempio all’emblematico caso di Roma quand’era in zona arancione: spostamenti non autorizzati in altri comuni se non per “comprovate esigenze lavorative, situazioni di necessità o motivi di salute”, ma libertà di movimento all’interno del quartiere Tuscolano (300.000 abitanti circa; il più popoloso di Roma e molto probabilmente d’Italia). Questo può essere, ovviamente, esteso a tutto il territorio della capitale.
Save lives to save the economy!