“Ha scaricato l’App sullo smartphone?” la domanda del personale museale al pubblico in fila prima dell’ingresso. Un giardino affollato con i tenderflex a delimitare la coda di persone che deve entrare negli ambienti espositivi e poi l’ingresso nelle sale. La particolarità è sapere che i quadri della collezione Barberini ritornano nel loro palazzo, occasione davvero unica di ammirarli proprio nel luogo da dove sono partiti per un lungo viaggio. Naturalmente c’è una folla che si accalca tra le sale al pianterreno di Palazzo Barberini, nel cuore di Roma.
Una folla che attende, scorre, si ferma, sgomita, fotografa, ascolta, ammira. Ma fatica a vedere. Non si tratta di una processione, anche se la forma è quella: l’occasione è “Caravaggio 2025”, la grande mostra-evento dedicata al maestro lombardo, organizzata in concomitanza con il Giubileo, e sin dal debutto avvolta da un’aura d’ineluttabile imperdibilità. Il titolo stesso pare voler legare in un unico gesto il nome di Michelangelo Merisi all’anno della remissione dei peccati. Ed effettivamente, osservando le espressioni rapite, i corpi accalcati e le mani protese verso l’icona, non si fatica a pensare che Caravaggio valga una penitenza.
Ma il successo, qui, sembra aver generato un paradosso: si è riusciti a creare l’evento, ma non la mostra. O almeno, non una mostra in senso pieno, non uno spazio dove la contemplazione delle opere si coniuga con il racconto critico, con l’approfondimento, con una riflessione storica e filologica coerente. Tralasciando per un attimo l’allestimento (ci torneremo tra poco) dotato di una discutibile illuminazione delle opere, visibili e godibili appieno solo da una determinata prospettiva, certo non centrale, le opere esposte sono ventiquattro, provenienti da collezioni pubbliche e private di tutto il mondo. Un repertorio di primissimo livello, che comprende capolavori come la Flagellazione di Cristo dal Museo di Capodimonte, il San Francesco in estasi di Hartford, la Giuditta e Oloferne di Palazzo Barberini, la Marta e Maddalena da Detroit, il San Giovanni Battista di Kansas City. Ma lo spazio dedicato a questa impressionante selezione, le sale espositive al piano terra, risulta del tutto inadeguato ad accogliere il flusso continuo di visitatori, tra singoli e comitive, che attraversano in massa le stanze con un entusiasmo quasi liturgico. Ne ritorna che, tra fare una fila davanti ad ogni opera per vederne le sfumature, ed il cercare una posizione che non rifletta la luce sulla tela, davanti ad ogni opera si crea una fastidiosissima fila, e per fortuna che l’ingresso è contingentato a scaglioni temporali.
A rendere il percorso ancora più complesso contribuisce un allestimento che non riesce a stemperare la densità visiva, né a valorizzare il confronto tra le opere. Eppure, l’équipe curatoriale è di alto profilo: Francesca Cappelletti e Maria Cristina Terzaghi, affiancate da Thomas Clement Salomon, direttore di Palazzo Barberini, hanno puntato su una presentazione che, almeno nelle intenzioni, vuole evocare la leggendaria mostra del 1951 organizzata da Roberto Longhi. Ma il mito fondativo finisce per schiacciare il presente.
Tra le presenze più discusse, spiccano il Narciso (attribuito a Caravaggio, ma che gran parte della critica assegna allo Spadarino), il Mondafrutto della Royal Collection, considerato il miglior esemplare noto ma non privo di incertezze, e il Ritratto di Maffeo Barberini, affiancato a quello recentemente riscoperto e di più salda attribuzione. Scelte che, insieme all’esclusione dal percorso di importanti interrogativi critici – come il confronto tra i due Ecce Homo (di cui uno, esposto, è presentato come autografo senza alcun cenno alla controversa versione genovese se non con un cartellino minuscolo che scompare tra le teste dei visitatori) – sollevano dubbi sull’impianto scientifico della mostra.
Il vero protagonista, almeno in termini mediatici, è proprio l’Ecce Homo spagnolo, recentemente “riscoperto” e al centro di un acceso dibattito tra studiosi. Esibito per la prima volta in Italia, è accolto in una posizione defilata, compressa tra la parete di fondo e la Flagellazione, con un custode fisso a impedirne la riproduzione fotografica. Nonostante l’allestimento e la didascalia ne certifichino con sicurezza l’autografia, le opinioni nel mondo accademico restano divise.
“Caravaggio 2025”, insomma, si presenta come un grande raduno attorno a un nome che continua ad esercitare un fascino irresistibile, forse ancor più che per la sua arte, per la sua leggenda. Ma è proprio la forza evocativa di Caravaggio a rendere ancor più evidente la mancanza di un discorso critico articolato, di una proposta curatoriale capace di coniugare rigore e divulgazione. L’effetto complessivo è quello di una “sfilata di icone” più che di un racconto museale: una collezione di capolavori assemblati per stupire, ma privi del contesto e della profondità che potrebbero davvero arricchire l’esperienza dello spettatore.
E allora, si può anche accettare che il successo di pubblico consacri questa mostra come un evento, ma una mostra non si misura dal numero di biglietti staccati, bensì dalla qualità del pensiero che l’ha generata. E sotto questo aspetto, Caravaggio 2025 lascia la sensazione di un’occasione, ancora una volta, non del tutto colta.
Ma per fortuna all’ingresso, il personale di sala si affretta a suggerire di scaricare una app sul proprio smartphone per cercare di sopperire ad una pannellonistica informativa su opere, periodo e vita se non su brevi accenni, colpevolmente assente.