A un anno dall’uscita di Baikonur – ultimo album degli Zephiro – intervistiamo la band new wave di Roma per farci raccontare come sia nato questo nuovo lavoro discografico e cosa racchiuda in sé. Ma prima qualche breve cenno biografico per conoscere le origini e gli autori di questo progetto.
Gli Zephiro sono una band new wave di Roma attiva dal 2002 e capitanata da Claudio Todesco. Strizzano l’occhio al post-punk britannico con liriche in italiano e a volte in giapponese. Nel 2006 pubblicano il primo album “Immagina un Giorno” presentato a Messaggerie Musicali di Roma. Nel 2012 pubblicano l’EP “Kawaita Me” contenente due brani in giapponese. Intensa è l’attività live con più di 300 date all’attivo, quattro Japan Tour di cui uno con 37 live, tre date nella grande mela e due a Buenos Aires. Vincono concorsi come Un Palco per il MEI, Rock Targato Italia e Videofestival Live. Svariate sono le aperture prestigiose come Negrita e Max Gazzè a Tokyo, Carl Palmer, Garbo, Diaframma, Neon e Riccardo Sinigallia. Scelgono l’Islanda come location per due videoclip legati all’album “Baikonur” – etichetta kuTso Noise Home – che vede alla chitarra Claudio Todesco, alla voce e al basso Claudio Desideri e alla batteria Leonardo Sentinelli; l’ultima traccia è un featuring con la voce storica dei Diaframma, Miro Sassolini. Dal 2019 ritorna nella formazione Francesco Chini alla voce e al basso.
È uscito da poco il vostro ultimo lavoro discografico “Baikonur”. Rispetto a quando avete mosso i primi passi insieme, come è cambiato l’approccio alla scrittura all’interno della band? Credi sia sempre fondamentale quella sottile linea di confine tra fare musica e creare musica?
Claudio Todesco (chitarra) «Il metodo nella scrittura è rimasto pressoché lo stesso: si improvvisa in sala, si salvano le parti migliori e si re-sviluppano per poi riportarle di nuovo in sala. Quindi l’approccio è ciclico ed è anche funzionale all’esigenza di manifestare un proprio mood immerso in un argomento a noi caro, il tutto condensato in pochi minuti di canzone. Direi stiamo perfezionando sempre di più questo lavoro di sintesi che risulta, senza volerlo, anche catalizzatore dell’attenzione delle nuove generazioni che sempre più sono abituate alle playlist, a “skippare” senza rimorsi, all’ascolto fugace.
In merito alla seconda domanda, questa linea è molto marcata; avere la fortuna di poter suonare proponendo a un pubblico le proprie composizioni è un privilegio senza eguali nel nostro campo artistico. Quindi se si crea musica si fa musica, ma se si fa musica non è detto che sia contemplata la fase della creazione».
Francesco Chini (basso, voce) «Partiamo dalla tua seconda domanda: a qualche livello, la pratica della musica permette sempre di porsi molte domande. Una delle più interessanti riguarda proprio la differenza fra creare e inventare. Oggi ci sembrano sinonimi, ma per i Romani il verbo invenire significava trovare: avevano già intuito che tutto quel che ci sembra di inventare esisteva già da qualche parte. È un concetto che abbiamo sempre tenuto presente, nella nostra scrittura. Che è cambiata soprattutto nell’intenzione. Nei nostri primi anni, come capita a tantissimi, per noi le canzoni erano quasi solo una specie di diario dell’anima: crescendo abbiamo imparato l’ampiezza, la verità e la bellezza insite in uno sguardo altro da noi. Tra le altre cose, crediamo sia anche uno dei punti di forza di Baikonur».
Un brano del vostro ultimo lavoro si intitola “Cosmorandagio”, dedicato alla cagnetta Laika. Le sonorità post-punk e new wave hanno aiutato a creare questa distanza “spaziale” tra un passato fermo e consolidato e un presente “Pop per pubblicità” più attento ai look studiati per una musica da classifica?
Claudio Todesco (chitarra) «Sicuramente utilizzare nei brani suoni, metriche e strutture tipiche di un periodo musicale già metabolizzato nella storia del mainstream aiuta a far sentire un certo tipo di ascoltatore in una comfort zone sonora che lo accoglie a braccia aperte. In ogni modo il post-punk o le sue derivazioni sono anche la nostra casa, noi stessi navighiamo volentieri in mari amici. Non ci dimentichiamo che in maniera subliminale nella musica da classifica attuale è pieno di richiami alla new wave, soprattutto si attinge molto dal synth pop. Quindi la distanza c’è in termini di opportunità, contano molto il paese dove stai pubblicando un album, quanto budget tu (e/o l’etichetta) hai da investire in produzione e promozione, l’età e l’immagine della band».
Francesco Chini (basso, voce) «Semmai l’hanno combattuta. Crediamo che il post-punk e la new wave siano forse fra i pochi generi che hanno combattuto un certo tipo di lotte senza rimanere intrappolati nelle paludi del portato tra lotta di classe e capitalismo e i suoi derivati successivi, trascendendone la contraddizione: al contrario, hanno provato a riscrivere un’idea controculturale di pop che potremmo quasi definire etica».
Qual è il segreto per far sì che la musica e le canzoni non invecchino mai?
Francesco Chini (basso, voce) «Nessuno. Tanto per la musica in generale quanto per la canzone in particolare vale la regola per cui a sottrarti alla ruota del tempo sono l’universalità del messaggio e la trasversalità della forza espressiva con cui quel messaggio viene portato. Entrambi i fattori sono però influenzati in modo determinante dallo specifico humus dato dal contesto che le dà alla luce. Vale per Schönberg come per Bowie, per John Cage quanto per Ian Curtis: senza lo scenario da cui muovevano, l’immortalità delle loro opere ci sarebbe sconosciuta».
Claudio Todesco (chitarra) «Ogni canzone invecchia fisiologicamente come avviene per noi esseri viventi; siamo impotenti di fronte a questo processo anche nella musica poiché non possiamo prevedere cosa andrà per la maggiore nel futuro. Certamente a volte diciamo che un brano è invecchiato male, è datato. Questo avviene quando il brano in questione esaspera tutti gli stilemi che poi diventeranno storia negli anni successivi. Direi che si tende verso l’immortalità quando la canzone è essenziale e pura».
La difficoltà dei live è evidente oggi. Strutture, locali, cachet, tutto è diventato insormontabile e, spesso, i musicisti sono messi a dura prova dalle regole della società burocratica. Credi che la musica, come altre forme di cultura, meriti un proprio spazio oltre a un certo tipo di “guida per ascoltatori”, soprattutto giovanissimi, per essere indirizzati – o meglio indotti – a una metafisica visiva e uditiva individuale e caratteristica?
Leonardo Sentinelli (batteria) «Personalmente sono stato fortunato, ho un padre musicista ed una madre amante della musica che mi hanno indirizzato educandomi all’ascolto e alla dedizione allo studio dello strumento. Io questa guida l’ho avuta ma mi rendo conto che non per tutti è così. Quante volte vediamo distrazione nell’ascolto? A monte c’è mancanza di concentrazione che non ti permette di andare a fondo nei contenuti e nelle emozioni».
Francesco Chini (basso, voce) «Per quella che è la nostra esperienza, le forme dell’espressione dell’umano sono come i liquidi: prendono la forma del recipiente che le contiene. Di per sé non necessitano d’altro. Semmai, ne sono indicative le proporzioni: quantitativamente parlando, quella che già un secolo fa gli americani chiamavano muzak resta, se non il genere, il principale motivo della fruizione da parte del nostro pubblico, che una volta avuta quella difficilmente cerca molto altro. Una situazione abbastanza sconsolante, soprattutto considerando che non avremmo bisogno di nessuna “guida per ascoltatori” migliore di una sana educazione alla curiosità – musicale e non solo – in età scolare: fattore, quest’ultimo, che continua a sembrarci il problema principale».
Claudio Todesco (chitarra) «L’educazione all’ascolto, ma in generale a godere di un’opera d’arte, dovrebbe essere materia scolastica. Si sa però che la scuola spesso allontana le persone alla passione ed ecco che in questo caso nella mia adolescenza interveniva il cugino più grande che ti prestava i dischi o il negoziante di vinili che ti consigliava una band appena uscita. Anche le riviste di settore suggerivano percorsi. Proprio per la “fatica” minima di ricerca che c’era nel trovare le informazioni e nell’ascoltare musica (non c’era Spotify e simili), la scoperta era sicuramente più sofferta e desiderata. Oggi ci sono a portata di un click tutte le discografie del mondo (o quasi, vedi Neil Young), apparentemente magnifico ma così si azzera il percorso, ci pensa l’algoritmo che ha preso il posto di tuo cugino più grande. Concordo con Francesco sull’importanza della curiosità e sull’educazione ad essa».
Cosa fate musicalmente per mantenervi vivi nella palude della massa calcificata? E quali saranno i vostri prossimi obiettivi, traguardi e impegni?
Leonardo Sentinelli (batteria) «La passione che mettiamo nella nostra attività è di per sé la manifestazione di una vita musicale a 360 gradi. In questa palude fortunatamente c’è anche una parte di pubblico attento, proprio esso ci trasmette energia e motivazioni forti. Uno scambio che dona benessere a entrambe le parti. Ora siamo concentrati sulla promozione live del nuovo album “Baikonur”, ma contestualmente iniziamo a metter mano a bozze di brani ancora in fase embrionale».
PROSSIMI EVENTI:
Ricordiamo, tra i prossimi live degli Zephiro, quello del 24 Febbraio al Defrag, in Via delle Isole Curzolane, 75 (Roma)
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