La prima volta che mi sono sentito vicino al mondo dei ragazzi affetti dalla Sindrome di Down non è stata davanti a una di queste persone in carne e ossa. Le osservavo con curiosità, ma non avevo l’occasione di parlarci, o almeno non riuscivo a crearmela.
Paura del diverso? Distacco? Imbarazzo? Tutte cose che oggi ho superato grazie anche alla sensibilizzazione e all’inclusione. Ce n’è ancora di lavoro da fare… La prima volta che mi sono accorto di quanto fosse meraviglioso il “loro” mondo, senza nulla da invidiare al “nostro”, fu al cinema: Le Huitième Jour, L’ottavo giorno, un film del 1996, diretto dal belga Jaco Van Dormael.
Mi ricordo che il ragazzo down era molto più preso dalle piccole cose della vita rispetto all’uomo che aveva incontrato casualmente, un manager, o un imprenditore insoddisfatto. Basta poco per entrare nel loro mondo e includerci entrambi, basta staccare gli occhi dal cellulare, o dalle nostre roccaforti: famiglia, affetti, colleghi di lavoro, stipendio, hobby, passioni, collezioni, proprietà…
Basta vederli alla partenza di un 100 metri al Golden Gala mentre salutano abbracciando lo stadio Olimpico, divertendosi molto più dei big. Basta vedere i loro sguardi mentre sono in piena azione, dando il meglio delle loro possibilità, spingendo fino all’ultimo metro per meritarsi l’applauso dello stadio. Zaramella e Gozzo, primo e secondo in estasi, proprio come la faccia di Lord Sebastian Coe, incredulo vincitore della medaglia d’oro sui 1500 alle Olimpiadi di Mosca con le braccia allargate. Piacentini, Capitai e gli altri partiti dai blocchi. La felicità che forse solo loro sanno vivere appieno dopo l’arrivo, abbracciandosi l’un l’altro stendendosi sulla pista. Proprio come le meraviglie del mondo che Georges mostra a Harry ne “L’ottavo giorno”.
Ero davanti a loro, dopo trent’anni di gare e garette, di mondiali e Olimpiadi, sono riuscito ancora a sorridere, grazie a quei ragazzi che correvano con la vita addosso.