Marco è un nostro assiduo lettore. Abbiamo incontrato Marco. Il suo sguardo, carico di nostalgia e disillusione, racconta una storia che va oltre il calcio, oltre i colori di una maglia. Sette mesi sono passati da quando ha smesso di seguire la Roma dopo quattro decenni di passione e fedeltà. Non è mai stato un tifoso di quelli “caldi”, non ha mai avuto un abbonamento fisso allo stadio, eppure la Roma è stata una parte fondamentale della sua vita. Una costante, una compagnia silenziosa che lo accompagnava nei giorni felici e in quelli più difficili.
Era uno di quei tifosi che il lunedì mattina accendevano la radio per ascoltare le analisi post-partita, che si fermavano nei bar o in ufficio per discutere del match con amici e colleghi, che ogni tanto si spingevano persino a parlare di tattica, anche se per lui il calcio era sempre stato più una questione di emozioni che di schemi. Guardava il pallone dove andava, non tanto il movimento dei giocatori. Ma poco importava, perché la Roma era una passione viscerale, qualcosa che non aveva bisogno di spiegazioni.
Eppure, oggi, Marco non c’è più. O meglio, c’è ancora, ma non davanti alla tv, non sugli spalti, non in quelle discussioni animate che rendevano il calcio così speciale. Ha smesso di seguire la Roma. Ha spento tutto. E il suo silenzio è la forma più alta di protesta che potesse scegliere.
Non è stata una decisione presa a cuor leggero. È stato un lento logoramento, una serie di eventi che hanno spento, pezzo dopo pezzo, quel fuoco che lo ha accompagnato per tutta la vita. Prima un allenatore che decideva di lasciare in panchina i giocatori più importanti, scelte inspiegabili che lo facevano infuriare. Poi la società, che ha deciso di vendere il giocatore simbolo, quello per cui si era emozionato sotto il Palazzo del Colosseo Quadrato, cantando insieme agli altri tifosi, con quella magia che solo il calcio sa creare.
E ancora, una squadra in caduta libera, senza un presidente, senza una dirigenza stabile, senza una guida vera. Ogni aspetto di quel mondo che aveva sempre amato sembrava sgretolarsi davanti ai suoi occhi. E Marco non poteva accettarlo. Non poteva restare a guardare, inerme, mentre la sua Roma diventava un’ombra di se stessa.
Così ha preso una decisione drastica: ha spento la tv, ha cancellato gli abbonamenti ai servizi di streaming, ha rinunciato ad andare allo stadio. Il lunedì non accende più la radio, non commenta più le partite, ha smesso di parlare della Roma. Il mutismo come forma estrema di contestazione, un’assenza che pesa più di mille parole.
Non è una protesta organizzata, non è una scelta imposta da altri. È uno sciopero personale, una negazione a se stesso. Un atto di dolore e di orgoglio, di rabbia e di delusione.
E viene da chiedersi: quanti altri come Marco avranno fatto la stessa cosa? Quanti hanno deciso di chiudere con la loro squadra del cuore, di non accettare più un calcio o meglio una società che non li rappresenta, una società che non ascolta, un sistema che sembra aver perso l’anima?
Marco ci racconta che all’inizio è stato difficile. Le domeniche senza la Roma erano strane, mancava qualcosa, un rito che aveva scandito la sua vita per anni. Ma con il tempo ha iniziato a riempire quel vuoto con altro. Libri, passeggiate, fotografie, una nuova routine. Ha scoperto che si può vivere anche senza il calcio, anche senza quella sofferenza costante che il tifo comporta.
Eppure, quando parla della Roma, gli si illuminano ancora gli occhi. C’è ancora un pezzo di lui che spera, che aspetta. Perché l’amore per una squadra non si cancella, si può solo mettere in pausa.
Forse un giorno tornerà. Forse riaccenderà la tv, tornerà allo stadio, ricomincerà a discutere di tattica e a sentire la radio il lunedì mattina. Ma non oggi. Oggi Marco è ancora un tifoso sospeso, un cuore giallorosso in esilio. E chissà quanti altri, come lui, stanno vivendo lo stesso doloroso distacco.