L’interconnessione tra sport e razzismo è un tema che ha guadagnato sempre più attenzione negli ultimi anni, soprattutto dopo episodi di intolleranza come il recente deturpamento del murales dedicato a Paola Egonu a Roma. Questo episodio, simbolico quanto triste, ha acceso nuovamente i riflettori sulla necessità di affrontare con serietà il problema del razzismo negli stadi e negli ambienti sportivi in generale. Ma quanto è cambiato davvero? La cultura sportiva è riuscita a prendere una svolta significativa o ci troviamo ancora di fronte a mere dichiarazioni d’intenti?
Alla vigilia del campionato di Serie A, è stata fatta l’ennesima dichiarazione che promette l’interruzione delle partite di calcio nel caso in cui le tifoserie esponessero striscioni razzisti. Questa promessa non è certo nuova. Ogni anno, la stessa frase si ripete nei comunicati stampa, accompagnata da proclami solenni, ma poi spesso disattesa dalla giustizia sportiva. Cori offensivi, episodi di razzismo, e striscioni vergognosi sembrano essere all’ordine del giorno, senza che misure concrete vengano messe realmente in atto.
Il caso di Paola Egonu, straordinaria campionessa di pallavolo italiana di origini nigeriane, nata in Italia, rappresenta un chiaro esempio della complessità del problema. Egonu è diventata non solo un’icona sportiva, ma anche un simbolo di inclusività e resistenza contro l’odio razziale. Il murales dedicato a lei, sfregiato con atti vandalici, è una testimonianza dolorosa del fatto che, nonostante i progressi fatti a livello sociale, il razzismo rimane una piaga profonda nel tessuto culturale del nostro Paese.
Ma cosa viene realmente fatto per fermare questa piaga? Le promesse di interruzione delle partite sono spesso vuote minacce, più che azioni concrete. In rare occasioni, vediamo misure come il DASPO (Divieto di Accedere alle manifestazioni Sportive) applicate, o la squalifica di una curva in casi rarissimi, ma nella maggior parte dei casi, i comportamenti razzisti vengono ignorati o minimizzati. Sembra che l’obiettivo principale sia mantenere il flusso di denaro che il calcio genera, più che promuovere una vera rivoluzione culturale.
Le Olimpiadi di Parigi hanno mostrato segnali incoraggianti di inclusività e tutela degli atleti, celebrando il principio di uguaglianza sportiva e sociale. Il messaggio che eventi globali come questi cercano di trasmettere è chiaro: lo sport deve essere un luogo di accoglienza e rispetto per tutti, indipendentemente da razza, genere o orientamento sessuale.
In effetti, abbiamo visto come, durante i Giochi Olimpici, gli organizzatori e le autorità abbiano preso posizioni ferme contro qualsiasi forma di discriminazione. Tuttavia, questi eventi sembrano ancora troppo isolati, e non riescono a innescare un cambiamento culturale duraturo.
Nei giochi olimpici targati 2024, abbiamo assistito infatti a campagne discriminatorie dove anche esponenti del governo, sia italiani che stranieri, hanno espresso pubblicamente dichiarazioni vergognose e diffamatorie nei confronti di atleti con attacchi omofobi, con l’uso dispreggiativo della parola ‘trans’ acclamando solo per questo l’avversario invitandolo ‘a braccia aperte’ presso il Senato della Repubblica Italiana.
È preoccupante vedere come, nonostante gli atleti rappresentino il Paese a livello internazionale e siano spesso accolti con onori negli ambienti istituzionali, vengano poi attaccati sui social o trasformati in bersagli di campagne d’odio che vanno ben oltre la critica sportiva.
Ritornando al campionato di serie A, il calcio è, senza dubbio, lo sport più popolare e seguito in Italia, ma è anche lo specchio più rappresentativo delle problematiche culturali che affliggono il mondo sportivo. La “cultura della tifoseria” spesso trasforma gli stadi in luoghi di sfogo per atteggiamenti razzisti, omofobi e xenofobi identificando lo stadio sportivo in un luogo dove la cultura del “tanto allo stadio si può fare di tutto” continua a dominare. Questo fenomeno non riguarda solo l’Italia, ma è un problema diffuso a livello internazionale.
Cosa manca veramente per cambiare questa situazione? La risposta risiede nella mancanza di una cultura sportiva solida. Senza una vera educazione del tifoso, che valorizzi il rispetto e la competizione sana, lo sport continuerà ad essere uno spazio in cui atteggiamenti discriminatori proliferano.
Le misure punitive, come il DASPO, possono rappresentare un deterrente temporaneo, ma non risolvono il problema alla radice. C’è bisogno di un cambiamento più profondo, una rivoluzione culturale che parta dalle scuole, dalle famiglie, dai club sportivi. Solo educando le nuove generazioni a comprendere i veri valori dello sport – il rispetto reciproco, la tolleranza, l’inclusività – possiamo sperare di vedere un reale cambiamento.
Gli atleti come Paola Egonu, che con il loro talento e la loro voce riescono a portare avanti messaggi di inclusività, sono fondamentali in questa battaglia. Ma non possono fare tutto da soli. Le istituzioni sportive e governative devono assumersi la responsabilità di promuovere una cultura sportiva che vada oltre il semplice successo economico e che valorizzi l’importanza dello sport come strumento di coesione sociale.