Nelle prime pagine di Pastorale Americana, il personaggio principale Seymour Levov è idolatrato dalla voce narrante, Nathan Zuckerman, per via delle sue doti sportive. A Levov, detto lo Svedese per i suoi lineamenti nordici, riusciva tutto. Eccelleva nel baseball, nel football americano e nel basket, le tre discipline più seguite negli Stati Uniti. In una delle sue numerose partite nel college, dove tutti se lo contendevano, uscendo dal campo di football lo svedese strizza l’occhio al piccolo Nathan dicendogli: “Il basket è un’altra cosa, Skip…” Al ragazzino bastarono queste parole per portarsi dietro tutta la vita quel mito in carne e ossa che frequentava la sua famiglia e aveva il dono di riuscire in tutto.
Quando correvo in pista, dopo aver abbandonato gli sport che mi avevano formato nei miei anni più vulnerabili, il calcio, il basket, il tennis e la pallavolo, ebbi la stessa folgorazione per un atleta che in qualche modo dopo molto tempo mi avrebbe ricordato lo Svedese del libro di Philip Roth. Antonino Cattaneo aveva una classe insuperata, nessuno gli aveva detto come tenere quel busto così alto ed eretto: ci era nato con quella destrezza. Saltava gli ostacoli fino a sfiorare di poco la vittoria nel giro di pista in un campionato italiano. Lo vidi dalla Tribuna Tevere dello Stadio Olimpico lottare con il napoletano Lorenzo Brigante che lo precedette sul filo di lana. Antonino era il mio Seymour Levov, riusciva in tutto, studiava Fisica a suon di trenta e lode pur mettendosi in gioco in uno degli sport più duri, dove non puoi lasciare nulla al caso. Lo vedevo allenarsi accanto a Gian Paolo Dickmann, il suo compagno dell’Acqua Acetosa che non voleva vederlo di schiena, ma che non possedeva il suo talento innato. Un giorno quel mito in carne e ossa volle divertirsi su un 800 metri. Per scendere sotto il muro dei due minuti io dovevo dannarmi l’anima. Lui li chiuse in 1’51” alla prima uscita. Capii che avrei dovuto allenarmi molto più intensamente, ma senza il suo talento, le sue strutture e la sua testa non fu possibile avvicinarlo; né al campo, né all’Università che lo portò a una probabile candidatura al Premio Nobel nel campo delle neuroscienze. Quel portento che volava con le scarpe chiodate come Mercurio Ermes era andato oltre Seymour Levov.
Il basket è un’altra cosa, Skip… Vado in bici da almeno tre decadi, pedalando vedi e raggiungi posti dove la corsa non può condurti, oltrepassi montagne incantate e avanzi sopra le nuvole in sella a un cavallo alato; come ti senti dopo cento chilometri non è nemmeno paragonabile a un’ora di corsa. Il giorno dopo, malgrado la stanchezza, hai le gambe sane e salve, senza alcun dolore. Non se corri, la corsa è tremendamente più dura, sei sospinto solo dalle tue gambe, avanzi solo con il tuo corpo, privo di qualsiasi aiuto. Non ci sono pause, non ci sono momenti in cui puoi rilassarti, il tuo cuore è lanciato al galoppo come un purosangue uscito dai cancelli delle gabbie, i tuoi battiti si avventurano oltre le Colonne d’Ercole. Da quando muovi i primi passi fino al traguardo sei nel mare in tempesta, e devi affrontare le onde senza crollare prima della vista dell’Arco. Solo quando realizzi che l’arrivo è vicino, se riesci, se le tue fibre ancora te lo concedono, accenni un ultimo allungo. È l’ultima corvé, l’ultimo servizio di fatica che si assegna ai soldati prima di deporre le armi. Il resto è sofferenza, anche se la corsa… è un’altra cosa.
Maurizio Ruggeri Fasciani