Quando l’ironia di un’intervista diventa virale e viaggia di pari passo con il peso della medaglia d’oro paralimpica, il successo sembra essere assicurato.
Un’impresa atletica incredibile che ha frantumato in una stessa gara ben tre record del mondo nel lancio del disco F52, quella di Rigivan Ganashamoorthy, atleta paralimpico romano con i colori azzurri. Il nuovo record supera di ben tre metri quello precedente stabilito da Andre Rocha.
Ben quattro lanci al di sopra del record quelli dell’azzurro, uno dopo l’altro, un susseguirsi di applausi nello stadio e davanti alle televisioni, un’impresa che fissa il nuovo primato a 27,06, una misura quasi imprendibile e che, speriamo davvero, rimanga impressa negli annali della disciplina il più a lungo possibile.
“Non mi aspettavo questo risultato, pensavo di fare qualcosa di buono ma non a questo livello. Credevo che Rocha fosse imprendibile perché era il detentore del record dal 2017 e mi dicevo che puntare così in alto fosse troppo. Non riesco a descrivere l’emozione perché è stata immensa, devo ancora metabolizzare cosa ho fatto. Al primo lancio ero un po’ congelato da tutta la folla, poi invece mi sono sciolto e ho fatto tutti quei lanci sopra il record del mondo. Quando ho visto i 27 metri mi sono stupito da solo, è una misura che mai avrei immaginato.”
Ma, con la nostra espressione di meraviglia, non è solo la prestazione che ha messo al collo di Rigivan la medaglia d’oro. La vera grande scoperta è nata da un’intervista post-gara di Elisabetta Caporale ai microfoni della Rai: ironia e spontaneità.
Elementi questi che hanno reso in pochissimi secondi Ganashamoorthy un vero e proprio personaggio mediatico, un’intervista ormai virale che in pochi attimi ha fatto il giro delle prime pagine dei giornali, dei social, coinvolgendo adulti e ragazzi, insomma uno di quei segnali di cui lo sport, specie quello più difficile, ovvero quello paralimpico, ha davvero bisogno. Un lampo nel cielo che di colpo sembra cancellare quello stigma da sempre rivolto alle persone con disabilità.
Una volta, ad un bambino piccolo, per una sorta di educazione, si imponeva di ‘non guardare’, di ‘fare finta di nulla’ con l’effetto però di creare sempre di più quell’invisibile barriera dolorosa, adesso invece si dovrebbe trasformare in “guarda e sorridi”, o meglio, “guarda ed impara”.
Un messaggio a cui ci aveva già abituati in parte Bebe Vio che, con la sua ironia, si toglieva gli arti artificiali al grido di “oggi mi sento a pezzi”, oggi, con l’intervista di Rigivan, si va ben oltre. La spontaneità, la prontezza delle risposte, l’accento romano o meglio quella romanità verace e dissacrante di Dragona, periferia nel X Municipio in cui anche Enrico Brignano è cresciuto, sono un vero e proprio spettacolo che fa tanto bene al movimento paralimpico, più di qualunque altro messaggio, più di qualunque progetto di integrazione sociale: è uno di quei segnali dirompenti che, usciti dal cuore prima che dalla bocca, a livello comunicativo smuovono le montagne.
Rigivan, Rigi per gli amici, origini dello Sri Lanka, su una carrozzina dal 2017, è colui che oggi dovrebbe essere il simbolo, per colore di pelle, malattia e mobilità limitata, di quella inclusività che tanto manca allo sport e che pesa come la mancanza dei 5 cerchi olimpici alle paralimpiadi, per quella lettera “o” mancante e discriminante che non permette di inglobare la parola olimpiadi al suffisso “para”, paralimpico e non paraolimpico, quel tassello mancante che separa e non include nello sport ma che ormai ci rende abituati sperando di non abituarci anche agli episodi di deturpamento del murales di Paola Egonu dopo le olimpiadi di quest’anno.