Le celebrazioni per il Maestro continuano. Reliquie sportive e prodotti commerciali in unico spazio: una riflessione a margine.
Negli anni ’70, Pier Paolo Pasolini definiva il calcio come “l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo”. A cinque decenni di distanza dalla celebre intuizione dello scrittore corsaro, oggi è possibile affermare che pure i riti del calcio, al pari di quelli delle religioni tradizionali, paiono se non logori quantomeno consunti dall’etica del profitto e dalla cosiddetta secolarizzazione dei costumi, che della mercificazione è conseguenza primaria. Sempre più numerosi sono infatti i semplici e tiepidi simpatizzanti di una squadra, mentre il fenomeno ultrà, con le loro guerre laiche di religione, batte da decenni in rumorosa ritirata.
La piccola esposizione di reliquie sportive dedicata all’indimenticato allenatore Campione d’Italia Tommaso Maestrelli, nell’anno del centenario dalla sua nascita, organizzata dalla ‘S.S. Lazio Museum‘ dal 18 al 20 novembre nel più importante dei negozi ufficiali dei biancocelesti, produce nel visitatore più attento un effetto straniante.
In due sale distinte ma contigue, otto teche racchiudono otto divise storiche, indossate da calciatori e tesserati della Lazio negli anni in cui, tra il 1971 e il 1976, Maestrelli si è seduto sulla panchina laziale. Oltre alle maglie originali portate da alcuni degli eroi di quelle stagioni come Giuseppe Wilson, Giorgio Chinaglia e Luciano Re Cecconi – spiccano su tutte quelle con lo scudetto tricolore – la S.S. Lazio mette a disposizione dei visitatori una piccola collezione di cimeli. Fra questi, ecco gli scarpini in cuoio appartenuti all’indimenticato “Cecconetzer”, come era stato ribattezzato all’epoca Luciano, per via del colore e del taglio dei suoi capelli, biondissimi, tali da ricordare un grande giocatore tedesco di quegli anni, Günter Netzer. Nei tre ripiani di una elegante vetrinetta, trovano spazio anche un riconoscimento al grande portiere ed ex allenatore biancoceleste Bob Lovati; così come il tesserino della F.I.G.C. appartenuto al presidente Umberto Lenzini; e lo storico gagliardetto ufficiale della formazione del ’74.
La mostra è piccola: fin troppo semplice nell’organizzazione, mantiene meno di quello che la pubblicità promette. Ma è pur sempre rivelatrice. Non si tratta solamente dell’ennesimo, seppur molto sentito, tributo che idealmente tutti i laziali innalzano alla figura di Tommaso Maestrelli, a quella pazza Lazio Campione d’Italia e ai suoi romantici eroi. L’esposizione – sia l’effetto calcolato o meno dagli organizzatori: personalmente, crediamo di no – rivela simbolicamente il segreto per cui la popolarità del calcio sfida il tempo e lo spazio, gli interessi contrapposti di ceti e classi sociali, ripetendosi sempre uguale a se stesso nel tempo, dunque per questo necessariamente sempre diverso.
Le reliquie contenute nelle teche (le magliette in lana e senza marchi, i piccoli trofei, un gagliardetto) sono inaccessibili al tifoso-consumatore: non si possono comprare, non si possono toccare. Sono oggetti sacri. Circondati però da merci. Ovvero, gli accessori e le divise della Lazio dei nostri giorni, ricoperte di sponsor e pubblicità, sistemate sugli scaffali del negozio, il non-luogo che fa da sfondo alla mostra.
Il mito e la sacralità oggigiorno acquistano senso soprattutto se fatti oggetto diretto o indiretto di consumo: dunque, pena la loro stessa dissoluzione, perché decontestualizzati. In pochi metri quadrati, ecco che questa semplice mostra condensa e rivela implicitamente la contraddizione irrisolta fra il sacro, sia questo laico o religioso, adocchiato oramai distrattamente fra un acquisto e l’altro, e il profano, che ci lega al presente e limita la nostra capacità di trascenderlo per immaginare una realtà differente; ecco l’opposizione tra la circolarità del rito, che rievoca il passato per eternizzarne i valori, seppur solo meccanicamente, e le necessarie quanto ridondanti novità dell’industria culturale; tra i sogni ad occhi aperti della gente, alla perenne ricerca di miti da cui trarre ispirazione, e il calcolo di chi il calcio, fuori dal campo, lo finanzia facendone strumento di potere. Si tratta di una tensione dialettica che il mondo del pallone non può risolvere da sé; ma che comunque segnala, grazie al suo esser dramma stilizzato, in grado di condensare nella propria forma semplificata tante delle questioni ultime su cui da sempre l’essere umano, giocando, riflette.
Negli appassionati sportivi più anziani, la malinconia della memoria si trasforma spesso in impotente nostalgia dei tempi passati. La storia non trova sbocco nel futuro. Osservando la maglia di lana di Chinaglia, o l’effigie di Maestrelli, in tanto penseranno “che si stava meglio, quando si stava peggio” e che oramai non c’è più niente da fare. Generalmente non è vero: no, non si stava meglio quando si stava peggio, nè tutto è perduto. Che il meglio debba ancora venire, tuttavia, pure questo è da dimostrare.